Spesso ospitiamo sul nostro sito interventi provenienti dal sito di Federsupporter. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere alcuni dei "motori" di questa iniziativa che ci hanno colpito per la capacità di mettere a disposizione le competenze professionali acquisite in una vita di lavoro al servizio di un'idea, al servizio degli altri.
Per chi non è una abituale frequentatore di Tifoso Bilanciato ci piace ricordare, ad esempio, che è anche grazie a Federsupporter (che ha operato fianco a fianco con il Codacons) se il dibattito nazionale sulla Tessera del Tifoso non si è limitato a proteste e striscioni nelle curve ma è approdato di fronte a TAR e Consiglio di Stato.
Oggi pubblichiamo un articolo che dimostra come anche scelte apparentemente di natura solo commerciale, quali il cambio del marchio di una squadra, possano aprire scenari di riflessione molto ampi. Come sempre in questi casi, l'Avvocato Massimo Rossetti ci aiuta a districarci fra concetti complicati senza obbligarci a dover prima … prendere una laurea in Giurisprudenza.
Recentemente la As Roma Spa ha presentato un nuovo logo della Società.
Tale logo ha suscitato e sta suscitando un ampio dibattito nell’ambito dei tifosi della stessa Roma e sugli organi di informazione: dibattito che, però, ha riguardato e riguarda prevalentemente aspetti di natura estetica e storici.
Poco o per nulla indagati e dibattuti, almeno per quello che a me consta, sono stati e sono alcuni aspetti di carattere giuridico, peraltro, come si vedrà, alquanto complessi.
Sul tema del marchio commerciale di società di calcio particolarmente interessante e ancora attuale risulta, a mio avviso, un ampio e dettagliato studio del 2006 di Giulia Cortesi, allora dottoranda presso l’Università di Roma La Sapienza e l’Universitè Aix – Marceille III, pubblicato sulla “Rivista di Diritto ed Economia dello Sport”, Vol. II, Fasc. 3, 2006.
Nell’opera citata si specifica che
I segni distintivi dei club non sono marchi “normali” bensì marchi notori, altresì detti “Popularity properties”. Questi ultimi derivano il loro nome dal fatto che sono caratterizzati da grande diffusione e popolarità, nonché da una chiara visibilità raramente circoscritta al territorio nazionale.
Così definiti i segni distintivi di società di calcio, l’Autrice si pone tre interrogativi: “Se il segno distintivo di una società sportiva, inteso come denominazione della squadra stessa, possa costituire oggetto di registrazione; se il segno in questione, qualora si tratti di un nome geografico, possa essere validamente registrato e, infine, se i colori di una compagine sportiva possano essere a loro volta registrati come marchi commerciali”.
Circa il primo quesito (tutelabilità come marchio di impresa della denominazione della squadra), viene riportata un’ordinanza del 5 marzo 1990 del Tribunale di Venezia, secondo la quale la disciplina applicabile non dovrebbe essere quella del marchio commerciale, bensì quella in materia di denominazione sociale.
Nel contempo, viene rilevato come, al contrario, lo statuto della FIGC attribuisca alla Lega l’esercizio delle attività relative ad accordi attinenti alla commercializzazione dei marchi delle società.
Ma, sostiene l’Autrice, considerato che il marchio, a differenza del segno distintivo consistente nella denominazione della società, identifica i beni e servizi prodotti dalla società medesima e considerato che, anche secondo una costante giurisprudenza (ex plurimis, Tribunale di Palermo, 2 luglio 1988 e Pretura di Venezia, 15 novembre 1989), il servizio prodotto da una società sportiva è lo spettacolo sportivo, può validamente ritenersi che i segni distintivi di una società rientrino nell’ambito della disciplina a tutela del marchio.
Circa il secondo quesito (tutelabilità come marchi dei nomi geografici), nel constatare che la maggior parte dei marchi di società sportive non sono altro che dei nomi geografici (toponimi), limitandosi il segno a descrivere la provenienza geografica del club, ciò dovrebbe escluderne la qualificazione come marchi di impresa.
Tuttavia, l’Autrice si esprime criticamente in ordine a tale assunto, non potendosi, a suo parere, eludere a priori la registrabilità come marchio di un nome geografico nel caso di società sportive, poiché, in questo caso, il segno può produrre attualmente o in futuro, agli occhi dei consumatori, un nesso con la categoria del servizio prodotto: vale a dire lo spettacolo sportivo.
E, infatti, sempre secondo l’Autrice, si deve tenere conto del fatto che un marchio, anche se originariamente privo di capacità distintiva, può acquisire tale capacità: per esempio, per mezzo dell’uso nel tempo o mediante l’arricchimento del marchio descrittivo con dettagli inusuali, quale una veste grafica particolare o con l’aggiunta di parti figurative o, ancora, abbinando la denominazione descrittiva ad un termine di fantasia.
La conclusione cui perviene l’Autrice è che “In ogni modo, e prima ancora di divenire notorio o celebre, il marchio descrittivo debole (tutelato solo se riprodotto dal concorrente integralmente o in modo molto prossimo) può rafforzarsi e divenire forte (tutelato ogni qualvolta il suo nucleo concettuale venga contraffatto), tramite l’uso commerciale posto in essere dal suo titolare, per esempio a seguito di una forte campagna pubblicitaria con conseguente incisiva penetrazione del mercato, in modo da far assumere al marchio quel significato individualizzante di cui inizialmente difettava. Si può dunque affermare che la registrazione dei segni di società di calcio, pur se consistenti in un semplice indicatore di provenienza, nella maggior parte dei casi, ed in particolare nell’ipotesi di società sportive già esistenti e note nel panorama del calcio italiano, possano legittimamente rientrare nell’ambito di tutela accordato dalla disciplina dei marchi”.
Circa, infine, il terzo quesito (applicazione della tutela dei marchi ai colori sociali), nello studio viene richiamata una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 6 maggio 2003, causa C-104/01, secondo cui, se il colore è originariamente privo di capacità distintiva e, quindi, non registrabile, però l’uso commerciale che di tale colore o combinazione di colori viene fatta può attribuire allo stesso un significato nuovo agli occhi dei consumatori portati ad associare tali segni al servizio e/o prodotto di una particolare impresa.
Pertanto, in base a questo principio e indirizzo, anche i colori sociali di un club calcistico ricadrebbero sotto la disciplina a tutela del marchio, grazie, soprattutto, alla loro notorietà e alla particolare attività di marketing che li riguarda.
Se, dunque, si concorda, come concordo, con le considerazioni e valutazioni di Giulia Cortesi, si deve pervenire alla conclusione che i segni distintivi di una società di calcio, sebbene consistenti in una indicazione di provenienza (nome geografico), ricadono sotto la disciplina della tutela del marchio, così come vi ricadono i colori sociali.
Ciò detto in linea generale, nel caso specifico della Roma, se il logo adottato all’atto della sua nascita e finora mantenuto, fatta salva una breve interruzione temporale, può, alla luce di quanto sopra, ritenersi tutelato, soprattutto nei confronti di contraffattori, dalla disciplina sul marchio, qualche perplessità può, invece, nutrirsi, a mio avviso, circa il nuovo logo.
Esso, infatti, proprio per il suo carattere di novità e non facendo più riferimento alla denominazione del club (As Roma), piuttosto al puro e semplice nome geografico di Roma, privo del requisito dell’uso e nel tempo e dell’arricchimento con dettagli inusuali, potrebbe non essere considerato un marchio vero e proprio o, comunque, potrebbe essere considerato un marchio debole.
La questione potrebbe diventare di particolare interesse e delicatezza, qualora il nuovo logo fosse confondibile, come taluni sostengono, con quello che usualmente si può rinvenire su oggetti venduti senza l’autorizzazione d’uso della Società (licensing).
Si verificherebbe, cioè, il paradosso del “contraffattore” “contraffatto”.
Né, come detto, la questione è o sarebbe solo curiosa e, perfino, sotto un certo profilo, divertente, bensì alquanto seria e delicata su piano giuridico.
Si potrebbe, cioè, verificare che, ove qualcuno fosse in grado di provare il pre-uso commerciale di un logo integralmente o in modo molto prossimo riprodotto dal nuovo logo della Roma, questo qualcuno potrebbe essere legittimato a rivolgersi al giudice per chiedere ed ottenere l’inibitoria dell’uso del logo stesso e, in caso di uso, il risarcimento del danno.
Quanto sopra, naturalmente, sempre che il logo di cui si chiedesse la tutela non risultasse, a propria volta, una contraffazione del nucleo concettuale del logo storico finora usato dalla Società.
Problema nel problema potrebbe essere, inoltre, quello rappresentato dall’utilizzo del nome geografico Roma, al posto dell’acronimo ASR.
Se, infatti, l’uso di un puro e semplice nome geografico, non caratterizzato dall’uso nel tempo e/o dall’arricchimento con dettagli inusuali e/o con l’aggiunta di peculiari parti figurative e/o senza l’abbinamento ad un termine di fantasia, non può rientrare nell’uso di un marchio, bensì in quello di un nome, allora la disciplina applicabile sarebbe quella di cui all’art. 7 CC (Tutela al Diritto al Nome).
In base a tale norma, l’uso indebito del nome da parte di terzi, che dà diritto di chiedere ed ottenere la cessazione di tale uso e il conseguente risarcimento del danno, appartiene, non solo alle persone fisiche, ma anche a quelle giuridiche.
Ma, se così è, a me sembra che il titolare esclusivo dell’uso del nome Roma non possa che essere il Comune di Roma. A questo proposito, la Corte di Giustizia Europea, 5 luglio 2011, C-263/09, ha sancito che il diritto al nome è inclusivo anche dello sfruttamento patrimoniale di esso.
D’altronde, è pacifico, anche secondo la dottrina e la giurisprudenza nazionali, che il diritto allo sfruttamento economico del nome appartiene esclusivamente al titolare del nome stesso.
Ne discende che è da ritenersi illecito l’utilizzo del nome altrui che possa dar luogo ad una confusione di persone, dovendosi intendere per tali anche quelle giuridiche, facendo credere a terzi che una determinata attività sia associabile alla persona-fisica o giuridica- titolare legittima di quel nome e che ne comporti lo sfruttamento economico da parte di chi non ne sia titolare.
In merito, è da menzionare, quale esempio, che il Comune di Venezia, allo stemma istituzionale, ha affiancato un proprio logo con finalità di sfruttamento economico dell’immagine, della notorietà e della rinomanza della città.
Il logo è oggetto, quindi, di attività di licensing da parte del suddetto Comune concernente qualsiasi tipologia di bene o servizio: tanto è vero che in un apposito Manuale d’uso sono contenute la descrizione minuta degli elementi grafici distintivi, le indicazioni di utilizzo del logo in termini di dimensioni, di possibili collocazioni, stabilendovisi le corrette modalità e applicazioni di utilizzazione.
In definitiva, la domanda che si può porre è: il nuovo logo della As Roma Spa, alla luce dei principi e criteri in precedenza esposti, può, oppure no, ritenersi lecito, tenuto conto che in esso figurano i colori della città, la riproduzione, sia pure in forma tenuemente stilizzata, della lupa capitolina e dei gemelli, Romolo e Remo, ma, soprattutto, la dizione, non più ASR, bensì “Roma”?
E, ancora, “1927” (anno di nascita della As Roma), riportato sotto “Roma”, può essere ritenuto un elemento sufficiente per evitare che, in specie consumatori non romani e, in particolare, stranieri possano associare l’attività cui si riferisce il logo, non alla As Roma Spa, bensì al Comune di Roma ?
D’altra parte, la stessa Società, in sede di presentazione del nuovo logo, ha tenuto ad evidenziare che esso, nella sua attuale configurazione e, soprattutto, con la spendita del nome “Roma”, anziché ASR, si propone proprio di determinare, in specie nei consumatori esteri, la percezione e la convinzione di cui sopra.
Per concludere, sarebbe, perciò, più prudente, almeno a mio parere, che, a scanso di ogni equivoco e rischio, la Società, nel nuovo logo, facesse precedere la parola “Roma” dall’acronimo AS (Associazione Sportiva).