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Il nuovo Medioevo

Creato il 16 agosto 2011 da Raffaelebarone

La crisi non è finita. Strategie di sopravvivenza in era post-moderna

4° Articolo  (Scarica qui)

Un millennio fa, nell’età preatlantica, il mondo era davvero occidentale e orientale al tempo stesso. In Occidente l’Europa era nominalmente sottoposta all’autorità del sacro romano impero, mentre il vasto e multietnico impero bizantino, tutto gravitante su Costantinopoli, fronteggiava perpetue tensioni con i suoi vicini. Mentre l’ Europa viveva il suo periodo più oscuro la Cina e l’India conoscevano un’età di splendore. Le dinastie Song e Yuan e quella mongola dei Ming rappresentarono lo zenit della cultura e della proiezione cinese nel mondo, mentre l’India, sotto l’impero Moghul, dominava l’Asia centrale e meridionale e intratteneva fiorenti scambi con l’Africa orientale. Nel frattempo , tra i califfati degli Omayyadi e  degli Abbasidi, l’islam raggiungeva il proprio apogeo, estendendosi su terre che correvano dall’Andalusia alla Persia  sfidando la cristianità quanto a prestigio. Fu nel corso del Medioevo che l’Europa, la Cina e tutte le popolazioni che vivevano in mezzo stabilirono contatti reciproci diretti e durevoli nel primo sistema mondiale della storia. All’indomani delle crociate, esploratori come l’arabo Ibn Battuta e il veneziano Marco Polo percorsero la via eurasiatica della seta e resero le grandi civiltà più consapevoli della grandezza delle altre. Le grandi carovane e i grandi mercati del XIII secolo, dalla Champagne a Samarcanda, facevano il pari con le attuali delegazioni commerciali, lanciate nel mondo in cerca di profitti come lo erano un tempo i mercanti arabi nel Wuxi cinese e come sono oggi gli uomini d’affari in Africa. Gli sforzi verso la riconciliazione religiosa del decennio appena trascorso affondano le radici nel pensiero duecentesco di Bacone , che riconobbe l’importanza della cultura islamica nel pensiero occidentale e si appellò al papa perché si seguisse la strada dell’educazione globale anziché quella delle crociate. Ricordiamoci che i confini degli imperi sono porosi, non impermeabili. Più potenze sorgono, più il mondo si apre.

Cosa significa tutto questo per un’America che non controlla più il processo di globalizzazione? Al posto del solito paragone con la Roma antica va fatta l’analogia medievale con l’impero bizantino. Bisanzio ha scongiurato il crollo per tutto il corso dell’età di mezzo, fino al XV secolo, estendendo la propria influenza attraverso lo spionaggio, la corruzione e le alleanze. Persino quando non era più in grado di imporsi nel caotico mondo del Medioevo, Bisanzio restava una forza militare, economica e culturale di primo piano. Dopo un decennio  d’ interventismo a guida americana, responsabile di danni non necessari, è difficile prevedere che Washington potrà riguadagnare la statura internazionale di cui ha goduto dopo la fine della seconda guerra mondiale, e perfino della guerra fredda. La visibilità degli USA può essere globale, ma la loro reale influenza si riduce a fattori molto specifici: dove  è attivo l’esercito, dove stanno investendo le aziende, quali lobby stanno elaborando una data politica in dato territorio. Sono questi elementi e non la retorica della “nazione indispensabile”, il modo migliore per inquadrare la perdita di status dell’America in un mondo sempre più complicato. Trovare un equilibrio tra Est e Ovest nel XXI secolo sarebbe di per sé un ‘impresa  abbastanza ardua se non fosse che, con essa non abbiamo raggiunto nemmeno la metà del percorso. L’età immediatamente successiva alla guerra fredda  sarà ricordata per  il rapido emergere  di un Medioevo post-moderno, di un mondo privo di un ‘unica potenza dominante. L’Est non sostituirà l’Ovest, la Cina non sostituirà l’America, il Pacifico non spodesterà l’Atlantico: tutti questi centri di potere e tutte queste geografie coesisteranno invece in un ecosistema ipercomplesso. Il Medioevo era  un intricato sovrapporsi di imperi, città, corporazioni, chiese, orde tribali e mercenarie, tutti impegnati gli uni contro gli altri per governare il territorio, controllare le risorse , conquistare scambi e investimenti e sedurre menti e cuori. Lo stesso quadro è di nuovo in via di dispiegamento. Facendo il gioco delle reti transnazionale del terrorismo, del crimine organizzato e del traffico di droga, la globalizzazione ha reso ancora più debole gli Stati deboli, mentre multinazionali e ONG hanno guadagnato in status e potere. Il numero dei gruppi che esercitano influenza sta crescendo esponenzialmente: le mappe del mondo di cui siamo in possesso non influenzano più la realtà di quanto accade nel campo. In un panorama così complesso il potere non è solido, ma fluido. Eserciti e arsenali nucleari non contano in termini assoluti, ma in contesti specifici quali la deterrenza, le occupazioni e gli interventi militari. Il potere sulle risorse e il potere sulle idee sono importanti  tanto quanto lo sono il potere militare e quello finanziario.

Persino sotto l’autorità formale dell’imperatore di Carlo Magno, al principio del IX secolo, i vescovi reclutavano in proprio vassalli e cavalieri , i monasteri costruivano fortezze e bastioni, ducati e feudi erano governati da comandanti militari e i baroni godevano di piena sovranità sui rispettivi feudi. Oggi è lampante un’analoga frammentazione della società dall’interno: da Miami a Bogotà, da Londra a Bangalore, è tutto un sorgere di società chiuse, con i loro strumenti di sicurezza. Agenzie  militari private sono germogliate negli USA, in Russia, in Germania e in Sudafrica non soltanto per dare sostegno alle operazioni militari in Iraq e in Afghanistan, ma per proteggere banche, navi, quartieri residenziali.

In questo mondo neomedievale c’è un altro interrogativo fondamentale: chi? Lo Stato ha costituito la forma politica che meglio ha servito l’età industriale, ma ora ci stiamo muovendo verso un’età postindustriale. Ma  Hegel definiva lo Stato “un’opera d’arte”, non se ne trovano due uguali. Esistono Stati con un forte senso di nazionalità come gli USA e il Brasile, Imperi mascherati da Stati come la Cina, Stati che si comportano da imperi come la Russia e Iran, imperi composti da Stati come l’Unione Europea, Stati fondati sulle risorse naturali come il Qatar, Stati-mercato con più stranieri che cittadini come gli Emirati Arabi, quasi Stati come la Palestina e il Kurdistan e Stati che praticamente esistono soltanto nominalmente come il Congo. Non c’è nulla di naturale in quello che chiamiamo Stato: alcuni sopravvivranno, altri cederanno il passo a ulteriori modalità di organizzazione della vita collettiva fondate sulla tecnologia, le risorse, l’ideologia e il denaro.

Anziché attardarci a pensare al mondo come se fosse governato da Stati coesi dovremmo all’opposto renderci  conto che abbiamo più “isole di governante” che effettivi governi-isole che, come nel Medioevo, non sono stati ma città. Oggi quaranta sole città-regione contano per due terzi dell’economia globale. Il loro potere sta nel denaro, nella conoscenza e nella stabilità. L’economia di New York, ad esempio, vale da sola più di quella della maggior parte dell’Africa sub sahariana. Città portuali e porti franchi agiscono come tante Venezia del XXI secolo: zone di libero scambio che smistano efficientemente prodotti di ogni tipo senza le seccature delle burocrazie governative. Poi ci sono le decine di megacittà, da Rio a Istanbul, dal Cairo a Mumbai, da Nairobi a Manila, centri nevralgici dei rispettivi paesi, ciascuna sempre più brulicante, ogni anno che passa, per l’arrivo di centinaia di migliaia di nuovi abusivi inurbani. Questa sottoclasse di migranti non è necessariamente sinonimo di caos e di economia sommersa, ma spesso vive in ecosistemi funzionali capaci di autorganizzarsi, producendo quella stratificazione fisica che era tipica delle città del  Medioevo. Attualmente, che siano ricche o povere, sono le città, più che le nazioni, a fornire i mattoni di costruzione dell’attività globale. Il nostro mondo è più una rete di villaggi che un unico villaggio globale. Alleanze tra queste città-stato sono di nuovo in via di formazione, come fu per le città baltiche della Lega Anseatica del Medioevo. Questi centri urbani impiegheranno i propri fondi sovrani per acquistare la tecnologia più avanzata dell’Occidente, compreranno aree di terra  coltivabile in Africa da cui ricavare gli approvvigionamenti alimentari, progetteranno i loro investimenti con eserciti privati e servizi di intelligence. Amburgo e Dubai hanno già concluso una partnership destinata a potenziare le rotte navigabili e la ricerca scientifica, mentre Abu Dhabi e Singapore sono unite da un nuovo asse commerciale. Oltre  che a pensare in termini di città che di Stato, dovremmo anche  abituarci a distinguere fra “Stato” e “governo”. In una età in cui il commercio globale  tiene nelle sue mani le leve fiscali e monetarie, in cui le barriere doganali riescono  appena a proteggere qualche industria  con i relativi posti di lavoro, in cui i network degli attivisti di ogni tipo sono in grado di destabilizzare le politiche nazionali, molti governi possono ambire al massimo a funzionare come filtri tra le priorità  interne e le esigenze internazionali. I governi puntano più a regolare che a fornire servizi: i migliori hanno sistemi fiscali equi e diffusi, contano su tribunali efficienti, proteggono i diritti di proprietà, difendono i confini, svolgono moderate funzioni di polizia , curano la stabilità economica e alimentano reti di sicurezza sociale. Quanti governi che svolgono  bene questi compiti  siamo in grado di nominare? In molte aree del mondo spetta sempre più alle associazioni umanitarie, ai gruppi religiosi e al settore privato fornire questi servizi di base.

In un mondo frammentato fino a questo punto su chi possiamo contare per la fornitura di questo genere di beni? Dal XIV secolo e per centinaia d’ anni la famiglia fiorentina dei Medici fu l’archetipo di una simile ibridazione di potere pubblico e privato. Ebbe tre papi, costruì magnifici palazzi, commissionò  opere d’arte destinate a forgiare il gusto  collettivo, si incrociò per via matrimoniale con le famiglie regnanti di tutta Europa. Oggi i confini tra pubblico e privato stanno di nuovo sfumando, come al tempo dei Medici: gli oligarchi di Gazprom controllano il Cremlino, uomini  d’affari miliardari  come Berlusconi in Italia e Thaksin in Thailandia sono anche primi ministri, le famiglie reali del Golfo del Persico  controllano al tempo stesso ministeri semiufficiali e fondi di investimento.

Le aziende a conduzione familiari e le piccole imprese  si confermano come la spina dorsale dell’economia mondiale, e quando le banche d’investimento battono in ritirata sono il private banking e le agenzie di promozione finanziaria a farsi avanti. Poi ci sono i megamiliardari-filantropi come Bill Gates, Richard Branson e Ratan Tata che finanziano la lotta alle malattie, sponsorizzano la costruzione di scuole in Africa e amministrano acciaierie grandi come intere città. Essi rappresentano i loro progetti e gli interessi delle proprie imprese, più che le rispettive nazioni di appartenenza, eppure milioni di vite dipendono dal loro lavoro. Il loro è un mondo privo di confini, e sono loro a farlo funzionare.

Dai clan alle corporazioni, tutti gli attori che erano impegnati nella diplomazia un millennio fa sono tornati in scena. La parola diplomazia deriva dal greco “diploun”, piegare, e si riferisce ai documenti ripiegati e conservati in lamine di metallo sigillate che autorizzavano gli emissari a entrare in territorio straniero. Oggi la stessa funzione è svolta dalla giusta business card. Nel Medioevo le comunità dei mercanti erano una forza di primo piano della diplomazia; a esse spettavano le traduzioni da una lingua all’altra, i cambi di valuta e lo smercio di tutta una cornucopia di beni lungo le strade dell’Eurasia.

Le imprese, oggi, hanno i loro progetti strategici, proprio come gli Stati. All’Expo 2010 di Shanghai le imprese avevano i loro padiglioni riservati esattamente come gli Stati. Delle cento più grandi entità economiche del mondo , le metà sono imprese private.

Ovunque i fondi d’investimento privati acquisiscono partecipazioni nella produzione agricola, nell’oro e in altre risorse, in cambio dell’offerta di servizi fondamentali  e dello svolgimento delle funzioni intermediari informali con i governi occidentali. Oggi la volontà di costruire un aeroporto o sviluppare un farmaco viene dalle imprese, che agiscono in conformità allo sviluppo dei mercati, tanto quanto e perfino più che dal settore pubblico.

Tecnologia e finanza hanno spezzato la tradizionale relazione tra frontiera e identità. Nell’antica Anatolia i mercanti mesopotamici erano diplomatici che si radicavano in quella terra straniera per consolidare legami culturali ed economici. Le odierne diaspore commerciali sono di nuovo la chiave che apre le porte ai legami economici e politici, come testimonia l’emergente “sinosfera” che comprende  cinquanta milioni di cinesi sparsi oltremare lungo le coste occidentali del Pacifico ed è così ampia da arrivare al Perù e persino all’Angola. Pechino ha cominciato a offrire irresistibili incentivi a questi cinesi all’estero perché investano nella madrepatria, compresa la potenziale possibilità di ottenere la doppia cittadinanza.

In un mondo neomedievale le identità multiple possono essere basate sulla nazionalità, la professione, la religione, l’appartenenza etnica e persino il proprio avatar online. La promozione delle competenze del personale nelle aziende si è trasformata in una promozione basata sull’offerta della cittadinanza nazionale, con staterelli come il Qatar che cercano di attirare dall’estero i migliori atleti e ingegneri del mondo, come gli USA offrono una scorciatoia verso la cittadinanza ai latinos che combattono in Iraq.

Oltre al denaro, al potere e alla parentela è la fede ad affermarsi come fattore di lealtà. L’islam e il cristianesimo si stanno sempre più radicando ed espandendo. Di nuovo quello che stiamo vivendo è un epoca di superstizione che ricorda il Medioevo, quando la Chiesa bandì il paganesimo e le pratiche magiche che riteneva antireligiose o forse troppo religiose. Il rapido diffondersi dell’AIDS, dell’influenza aviaria e di altre pandemie sembra rincorrere perennemente lo spettro della Peste Nera.

La paura del futuro, del resto, va di pari passo con lo smantellamento del welfare e lo svuotamento dei fondi pensione; e c’è qualcuno che predice che l’uscita dalla crisi finanziaria vedrà favoriti quei gruppi religiosi con alti indici di natalità come gli ebrei, i musulmani e i cattolici, che hanno chance migliori di stabilizzazione economica per il forte peso dei legami di parentela e dei finanziamenti interni alle comunità- i fondamenti della stabilità locale nel Medioevo. I sintomi del Medioevo sono ormai chiaramente visibili: caos economico, tensioni sociali, depravazione morale, consumi selvaggi, corruzione e isterismo religioso impazzano  appena sotto la superficie della nostra apparenza di sofisticatezza.

Un ruolo importante nella soluzione di nuovo medievalismo spetta alle ONG e al settore privato: si chiama nuovo colonialismo. Nel Medioevo erano le Chiese, e non i governi temporali, ad occuparsi dei malati e degli emarginati e a imporre alle università e alle gilde commerciali di accantonare denaro per scopi caritativi. Oggi le super-ONG come Oxfarm, Mercy Corps e l’International Rescue Committee (IRC) gestiscono da anni ospedali, scuole e campi profughi in luoghi in cui rappresentano l’unica barriera tra l’umanità e il caos. Nelle due decine di paesi tra i più poveri dell’Africa sub sahariana Medici Senza Frontiere (MSF) cura migliaia di giovani sieropositivi, nutre i  bambini e aiuta i rifugiati. Di fatto sono le istituzioni più solide insieme ai più forti attori privati a governare Stati postcoloniali privi di speranza e tali soltanto nel nome.  La tensione ormai perpetua tra la difesa di garantire una legittimazione pubblica e la necessità di garantire in fretta sicurezza, cibo, elettricità, sanità e  scolarizzazione- tutte cose che spesso e volentieri le imprese e le ONG sanno fare meglio dei governi- ha dato corso a un nuovo  tipo ibrido di Stato sovrano nel quale l’esecutivo in carica non è necessariamente l’attore più influente sul territorio.

Sono state le organizzazioni della società civile a lanciare la sfida in settori quali il microcredito per i poveri o il bando delle mine antiuomo, come sono stati gli scienziati e il mondo accademico a fare del climate change   un’urgenza di prima grandezza. E’ Oxfarm a suggerire il da farsi al DEID, l’agenzia inglese per lo sviluppo, e non il contrario, e la Gates Foundation decide l’agenda della salute pubblica più dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, della quale per altro, Gates copre fino ad un terzo del badget.

Si è spesso portati a comparare il periodo attuale con quello delle due grandi guerre, tra il 1919 e il 1939. In effetti, in quei vent’anni il Giappone era la potenza in ascesa in Asia, come oggi lo è la Cina: l’influenza spagnola imperversava come oggi AIDS: Allora ci fu la Grande Depressione, oggi la Grande Recessione; e la Società delle Nazioni Unite fallì, Le Nazioni Unite sono più che mai in crisi. Tuttavia il parallelo con il Medioevo è più illuminante laddove sottolinea la complessità di un mondo popolato da tanti diversi tipi di attori, e se non altro, paradossalmente, ci dà qualche speranza che la nostra situazione attuale possa sfociare in nuovo Rinascimento anziché in una guerra mondiale. Il Medioevo diede pienamente vita al Rinascimento soltanto grazie alla nascita dello Stato-nazione nell’Europa del XVI secolo; disegnare una nuova architettura per il nostro mondo neomedievale potrebbe, dunque , richiedere decenni.

Questo articolo è tratto dal libro di Parag Khanna “Come si governa il mondo” Fazi Editore


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