Il nuovo paziente: Jacopo Sannazaro

Da Auroita @Vincenzo_Durso

Jacopo è giunto da poco in ospedale. Molti si chiedono perché non parli in italiano. Per farsi capire si esprime a gesti. Porta con sé una strana marionetta. La fa danzare e cerca di distrarre i medici, per non ricevere l’iniezione giornaliera. Io sono un suo compaesano. Molti mi chiedono: «Vincenzo, dài! Parlagli tu. Parli il napoletano, almeno dai una mano ai medici». E la sola cosa che posso dire: «Perché?». Io prima ero un medico, adesso sono un paziente, anche voi non dovreste aiutare i medici. Il problema è che la Letteratura è curata da medici disordinati. Come possiamo mai aiutarli? Io sono diventato un paziente da curare. Ma molti vogliono il mio sostegno. Io non ci riesco. Sono debole quanto loro.

«Il paziente mostra diverse manie ossessive. Come lo stare sempre fuori all’aria aperta. Quasi volesse evadere dalla realtà in cui vive».

«Dott. X mi mostri la cartella clinica del nuovo paziente, per cortesia».

«Certo ma…».

«Niente ma. Sa benissimo che il paziente deve rimanere in spazi chiusi. Soffre di un forte attaccamento alla natura. È bucolico. Dobbiamo intervenire d’urgenza!».

«Sì, ma con quale cura?».

«Una di quelle aggressive. Assolutamente. Prenda il manuale di medicina!».

«Scusi, ma perché non proviamo una cura sperimentale? Di quelle serie, però! Il consiglio ci tiene che facciamo affidamento  a queste nuove metodologie, oppure no?».

«Be’, sì. Ma lei che cosa propone?».

Nel frattempo che i medici perdono tempo in ciance, Jacopo sembra sempre più immerso nella natura. Assorto nelle meraviglie che essa può offrirci. Io non sono mai stato un poeta naturalista. Almeno non uno di quelli vecchio stampo. Ho sempre pensato alla natura come ad una macchina. Un automatismo incontrollabile, in cui l’uomo non può far altro che stare a guardare e ad assistere alla sua violenza, ma anche alla sua incredibile sensualità.

Io sono stato legato alla sedia. Troppo ribelle, così mi dicono. Neppure le cure possono rendermi mansueto. E nel caso in cui qualcuno mi volesse chiedere: «Ma sei napoletano, giusto? Hai più parlato con Jacopo?». In realtà, sì. C’ho parlato, ma è per questo che mi hanno etichettato come: “Persona altamente instabile. Incurabile. Previste sul paziente anche cure aggressive. Nessun risultato. Prenotazione in corso per la sala operatoria”. Che poi manco ho capito che cosa possano mai fare durante il trattamento chirurgico.

«Ma come sei finito qui dentro?».

«Aggiò sparato a Sincero. Nun o’ supportavo cchiù».

«Ah! Ma lui non era una tua creazione?  Voglio dire… non eri tu travestito da pastore?».

«Infatti! Ma chillù babbasone se fatta l’amante. E a pure abbandunato Napule. È nu’ figlio è ‘ndrocchia!».

«Ah! Quindi resterai qui fino a quando non ammazzerai pure la tua amante? Cioè… quella di Sincero?».

«È certo! Chella pruasa addà fa a fine da mamma soia! Cioè l’aggia regnere è mazzata».

«Ah! È quasi ora di pranzo… meglio che torni in camera mia. Stammi bene!».

«Stattè buono cumpaisane!».

Così mentre entravo in camera, ecco che i medici mi hanno legato alla sedia con la semplice accusa di aver parlato con uno di quegli adepti arcadici, che non vogliono far altro che avere rapporti con la natura.

«Mi sa che lo abbiamo perso! Sarà stato contagiato! È meglio legarlo, starà meglio».

«Sì, concordo collega. Sarà meglio così. Anche perché, se è stato infettato, le cure non servono a nulla. Non abbiamo ancora trovato una medicina che possa curare questa forma di malattia culturale».

Ed eccomi qui. Ad osservare la finestra, o meglio, Jacopo che tenta di catturare muse o insetti di genere, mentre sento il profumo di cibo provenire dalla mensa. Poi manco ho fatto colazione per chiacchierare con Jacopo. È simpatico, anche se troppo ansioso e presuntuoso. Si dice a Napoli che fa “o’ wuappo è cartone”. Ma, ad oggi, anche per quello ci vuole una laurea. Insomma, un minimo d’istruzione per padroneggiare la materia.


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