Magazine Diario personale

Il paese di pietre vive posted by Raffaello Bovo

Da Parolesemplici

Il paese di pietre vive posted by Raffaello BovoLa pecora andava intorno brucando tranquilla. Era ai margini del gregge ora e pareva non fare caso al maschio poco più in là. Muto sentiva lento il rintocco dei campanacci e l’odore lontano del bosco. La pecora gli era vicina e lui sapeva già il resto, senza stupore. Da tanti anni portava le bestie al pascolo che un po’ era bestia anche lui e del gregge sapeva quanto c’è da sapere.
Il montone s’alzò e ricadde sulla femmina, che incurvò la schiena sotto il suo peso, belando con voce mielata. In cielo due falchi intrecciavano arabeschi indolenti,  planando nel vento, lasciandosi portare dall’aria mutevole, attenti alle prede. Muto li seguiva con gli occhi e provava dentro una gran pace, come se quegli svolazzi suonassero musica alle sue orecchie sorde, come se il belato dolce della pecora trafitta fosse una nota che risuonava nella sua mente. Sentiva le marmotte fischiare lontano e il gracchiare dei corvi come vibrazioni nel petto e intanto fiutava l’odore di resine sospeso nell’aria. Ogni tanto qualche bestia del gregge alzava il muso da terra, lo guardava e gli belava qualcosa che non poteva udire, ma che sentiva nel cuore, e sorrideva per ricambiare il saluto.
Il montone stava allentando la stretta. Ancora un po’ e si sarebbe staccato, si sarebbe allontanato nel pascolo, fendendo il gregge con calma severa, a testa alta e tronfio, e avrebbe cercato buona erba più in alto, già dimentico di cosa era accaduto. Non ci avrebbe pensato più, fin quando non avesse fiutato di nuovo l’odore.
Muto trasse fuori dalla bisaccia di tela una pagnotta e un pezzo di cacio e prese morderci dentro, col gusto di chi ha piacere a riempirsi la bocca e masticare. Non perdeva di vista le pecore, ma intanto guardava una chiazza di neve, più in là, mentre l’ombra le scorreva addosso, rifluendo via, e il sole vi accendeva formicolanti scaglie di luce. Qualche pecora s’era accucciata e continuava a brucare. Anche Muto masticava adagio, lasciando che il tempo fluisse e, ogni tanto, beveva un sorso di vino annacquato, ma non perdeva di vista le bestie né la scintillante macchia di neve che risplendeva nel sole come una gemma. Alzò di nuovo gli occhi al cielo turchino, facendosi schermo con la mano. Non mancava più molto. Già la luce colava dal monte e presto si sarebbe versata nel prato e dentro il ruscello e tutto avrebbe mandato scintille e bagliori. Da dove stava seduto sentiva scorrere l’acqua crosciando sommessa ed era come se lo chiamasse, suadente, ma lui lo sapeva quando veniva l’ora d’andare. Quando brilla l’erba del ciglio e l’acqua diventa diamante. Non si sarebbe lasciato incantare. Né prima né dopo. Solo in quell’attimo avrebbe potuto cogliere le prietre di sogno.
Trasse di tasca il fazzoletto e lo svolse con un triste presagio per guardare ancora quellle che aveva colto il giorno prima.  E infatti eccole lì, riverse nel palmo, morte anche loro come tutte le altre. Tirò un profondo sospiro, pensando che le pietre muoiono in fretta fuori dall’acqua, più in fretta, quasi, dei pesci. Le cogli che sono lucide e vive, splendenti di gemma, i colori lucidi e tersi, morbidi, netti e guizzanti nell’acqua, ma appena le peschi cominciano subito a ricoprirsi d’un velo di morte e i colori appassiscono sotto i tuoi occhi, sfumando in un grigio uniforme. Guardava le due che aveva tenuto avvolte nella stoffa pulita, sperando che potesse servir da rimedio, e pensava quanto aveva sperato anche altre volte. Alla fine era sempre lo stesso. Non c’erano santi né madonne, morivano tutte. Restavano tonde e levigate ma non c’era più quella pelle vellutata che vedeva palpitare sott’acqua, nella corrente argentina, e che solo per pochi momenti gli risplendeva nel palmo. Poi la vita sbiadiva.
Scese dal masso dove stava seduto, staccando croste di muschio. Fece un buco per terra, col suo coltello, pose una manciata d’erba sul fondo e vi adagiò  le pietre morte. Le ricoprì con la zolla e la pigiò col piede, provando un senso di colpa. Era lui che le uccideva e provava una gran pena per loro, davvero non avrebbe voluto, ma era più forte di lui. Quelle, ormai, erano morte, già lontane nel tempo, già un ricordo. Lui ora ascoltava il richiamo dell’acqua farsi impaziente e s’immaginava le pietre luccicare sul fondo. Sperava che potesse essere quello il giorno giusto per trovarne che non morissero subito, le voleva belle e rotonde e liscie ma non tanto grosse, non tanto abituate all’acqua da non potersi adattare a star fuori.
Muto sentiva se stesso già teso al primo passo verso il ruscello e gli dilagava dentro una voglia d’andare da togliergli il fiato. Sapeva che le avrebbe trovate. Erano là, nell’acqua gelida, che l’aspettavano. Era ora d’andare.
Il prato, in un punto, era blu di genziane e Muto si chinò a guardarle. Per un momento il pensiero delle pietre sbiadì, s’accucciò, poi si stese nell’erba fino avere la faccia in mezzo al fitto di fiori, col blu dei petali che gli sommergeva lo sguardo, che gli entrava negli occhi e gli invadeva il cuore.
La gente, quando lo vedeva così, ghignava, dicendo che ascoltava l’erba crescere e si batteva col dito le tempie, ammiccando agli amici. Ma lui era mica toccato, è la gente che è scema e dice così, tanto per dire. Mica si può sentire il suono dell’erba che cresce, anche se rumore ce n’è, in mezzo agli steli. Basta chinarsi e porgere orecchio e si sentono mille fruscii e fermenti di vita, tra l’erba. Ma non era per quello! La gente parlava e lui no, così non poteva spiegare. Era la luce e il colore! Tanta luce e colore da averne gli occhi stanchi, alla fine. Fa in fretta la gente a parlare! A fare andare la lingua. Lui no, era mai stato capace. Ma gli occhi li aveva e aveva il naso e le orecchie. Per ascoltare un lombrico strisciare, per fiutare la fragranza della rugiada sul muschio, prima che il sole l’asciughi. Per vedere la luce e il colore che c’è nelle cose, una spiga dorata che freme alla brezza, una penna di corvo iridescente di mille colori, il mutevole azzurro del cielo percorso da nuvole bianche o di porpora, o grigie come fuliggine. Il colore e la luce del ghiaccio, lo scarlatto dei papaveri e il vellutato bagliore di brace, l’ansia di fiamma nel camino. Un filo d’erba a primavera e le betulle in autunno. E poi fiordalisi, genziane. Saziarsi di blu.
Come mai la gente non capisce?
Lui s’avvicinava con gli occhi finché tutto il resto spariva e il suo mondo diventava un abisso di verde, o di rosso o di giallo dei tarassachi e ci si poteva perdere dentro e starci incantato, come guardasse negli occhi una serpe. Allora nient’altro esisteva perché lui assorbiva il colore e ci stava dentro come un pesce nel fiume, felice.
Perché la gente non capisce? Non è capace? Forse a cercare di spiegarle, le cose svaniscono, come le pietre?
Le pietre! Dio buono, lo stavano aspettando! Le genziane ci sarebbero state ancora domani, le pietre che l’attendevano forse non ci sarebbero state più, si sarebbero allontanate, fatte rotolare dalla corrente lontano da lui e non sarebbe riuscito a ritrovarle.
Mutò s’alzò, mentre il blu delle genziane trascolorava in un azzurro sbiadito, in trasparenze di ghiaccio che rivelavano altri colori lucenti. Era già in ritardo e la voglia di pietre gli lievitava nell’anima come un pane, così l’ultimo tratto lo fece di corsa, anelante.
E, come sapeva da prima, le pietre erano là, evanescenti nell’impeto terso dell’acqua eppure stagliate sul fondo, vicine, compagne nell’aspettarlo. Muto le colse ma tenne la mano nell’acqua, che avessero il tempo d’abituarsi a lui, di sentire amiche le sue dita e lui di sentirle vive nel palmo. Il gelo della corrente gli mordeva la carne ed era come se lentamente la sua mano morisse. Gli pareva di legno quando trasse le pietre all’aria ma pensava che loro dovevano soffrire ben più di così. Guardava il lucido nero verdastro facendo schermo, con l’altra mano, alla luce del sole e vedeva i due sassi fissargli addosso, dalla penombra dei palmi, lo sguardo triste di chi sa vicina la morte. Uno sguardo severo d’accusa per quella loro condanna inattesa, che non meritavano. Restò sulla riva, tenendo un occhio sul gregge e mettendo ogni tanto la mano nell’acqua ma lasciandola ogni volta di meno e pensava che forse così loro avrebbero imparato a viver nell’aria. Poi l’ombra della montagna cominciò ad aleggiare sul prato e spense i bagliori dell’acqua, segnandogli l’ora di fischiare ai cani per avere le bestie radunate e pronte al ritorno.
Il sentiero, selciato nell’ultimo tratto, scendeva in paese allargandosi in piccola piazza, davanti alla cappella e al solo negozio, l’emporio dove si trovava di tutto, e Muto l’attraversava ogni giorno. La gente a quell’ora smetteva i lavori e il bottegaio usciva ad agganciare le imposte e a scambiare quattro parole con quelli che tornavano dal lavoro nei campi con fasci di erbe per i conigli e in spalla gli attrezzi. Ma quando passava lui la gente faceva solo un gesto alla svelta o un sorriso appena accennato, quasi mai parole perché non ci sarebbero state risposte, e poi con suo padre non c’era amicizia.
Dalla piccola piazza partiva un vicolo stretto, acciottolato e pesante dell’odore di strame. Dalle stalle veniva, oltre l’odore, un tepore di corpi e i versi sommessi di vacche e vitelli eccitati dall’abbaiare dei cani e dai campanacci.
Muto stava con il suo vecchio nell’ultima casa in fondo al vicolo angusto e ogni giorno passava tra quelle vecchie case addossate, d’un ruvido grigio incrostato di muschi, e davanti alle solide porte, più ferro che legno per generazioni di chiodi piantati e di rattoppi fatti con rugginose lamiere. Scalpelli e  lame d’accetta e ferri da bestie, che non servivano più, eran ficcati ogni tanto nei muri, per fermare una pietra sconnessa o anche soltanto posati lì e dimenticati alla pioggia.
Ricoverate le bestie Muto fece i lavori di sempre ed era già buio quand’ebbe finito. In casa il suo vecchio se ne stava seduto in un angolo, al buio, spenta la stufa, e borbottava le sue bestemmie con voce impastata, da ciucco. Ogni tanto schizzava sulle tavole consunte del pavimento una saliva nerastra di tabacco masticato e scolava un bicchiere di grappa. Da quando Muto era stato in età di darsi da fare il suo vecchio s’era ridotto così e faceva più niente e anche per mettere sotto i denti un boccone aspettava che lui arrivasse a preparare un piatto di zuppa. Muto si dava da fare, alla svelta, impaziente di poter uscire nel vicolo e andare nel prato e perdere gli occhi nel nero infinito del cielo, rotto soltanto dai tenui fantasmi delle creste spolverate di neve e così aspettare che si levasse la luna, limpida e splendente e benigna.
Muto andò a sedersi sul bordo del lavatorio di pietra scavata e trasse di tasca i suoi sassi e li guardò con affetto, alla luce d’una finestra dove già brillava un’amichevole riverbero di fiamma. Ma anche quelli erano già sfioriti, il bel nero lucente s’era appannato e il loro sguardo era opaco, adesso, spento come quello dei ciechi. Sentì lacrime bagnargli le ciglia per la pena e la delusione e la rabbia e con rabbia prese a dar pugni sul bordo del lavatoio e ci lasciò cadere le pietre. Dio è cattivo, pensava, a lasciare che tutto muoia così in fretta, a non lasciare speranze a nessuno, a voler tutti infelici, e piangeva dentro di sé, come piange una bestia, come ulula il lupo.
Dalla finestra affacciata sul vicolo la Maestra lo vide. S’era accesa una sigaretta e s’era sporta a fumare, per non far puzza di fumo in casa e non sentirsi sgridare.
Era una ragazza di lì, tornata in paese perché ci stavano ancora i suoi vecchi e loro non volevano saperne di spostarsi in città, d’andarsene via da quel grumo di case dove non c’era niente se non l’agonia. Non era stato difficile ottenere quel posto, nel paese vicino. Anche quello era poco più grande d’un cimitero e non ci voleva andare nessuno. In classe aveva una dozzina di teste vuote in cui cercare d’infilare qualcosa, prima che si mettessero al lavoro nei campi o sparissero anche loro, come tutti. Anche quelli con cui aveva giocato bambina e scambiato baci furtivi nei fitti delle betulle o sotto le spalle del ponte di legno non c’erano più. Qualcuno s’era sposato in altri paesi, altri avevano passato la catena dei monti, altri l’oceano. Ogni tanto scrivevano a casa e dicevano di stare bene e salutare gli amici. Muto allora era troppo bambino e nei loro giochi non c’era. Tornando, però, la Maestra aveva trovato soltanto vecchi decrepiti, così era stata spesso con lui, là dove le case finivano e c’era solo più il prato che strapiombava dal monte e rivi croscianti tra i massi.
Nata lì, adesso si sentiva straniera.
Aveva saputo cos’è la città, aveva imparato che è orribile e bella. Uno impara ad amarla senza neppure rendersi conto quanto sia bastarda e anche se arriva a sprezzarla diventa difficile voltarle le spalle e tornare. Ma era cresciuta in un mondo dove i vecchi contan qualcosa ed era tornata, sapendo di dividersi in due, ma non aveva messo in conto che, adesso, al paese si sarebbe sentita soffocata così. Quella gente non la sentiva più sua e certi discorsi che sentiva fare le apparivano bestemmie, ma discutere con quelle teste vuote, eppure più dure che roccia, era come dar la testa nel muro. Sognava in continuo quante parole aveva fatto in città con gli amici, ad anima aperta. Così Muto era per lei uno sfogo di tutto quanto doveva tenersi dentro e quando lui la incontrava e le si metteva di fianco, camminando se lei camminava, sedendosi accanto a lei quando lei cominciava a soffiare e si prendeva una pausa, quasi fosse un cane che s’accuccia accanto al padrone, lei prendeva a parlare. Parlava e parlava, senza fare attenzione a cosa diceva, si spurgava del fiele e la mente le tornava serena, il cuore meno strizzato e sorrideva vedendolo affezionarsi così. Era quasi sicura che il più delle cose che gli diceva lui non potesse comprenderle e sorrideva a vederlo scuotere il capo in cenno d’assenso, come un cane scodinzola sentendo suonare la voce del suo padrone, ma lei era certa che tutto rimaneva, per Muto, come sospeso nell’aria, mentre accarezzava le sue pietre con occhi tristi.
Lei spesso aveva pensato che per forza è triste uno che non può parlare con gli altri, dire cos’ha nel cuore, sentire ragionamenti, altre volte, però, s’era detta che era una fortuna e uno può riposarsi sapendo che tanto non potrebbe dire niente a nessuno. Muto, certe volte, sembrava parlarle con gli occhi e dirle quello che dicono al padrone le bestie, con quello sguardo umido e caldo d’affetto ma con dentro un’angoscia profonda, come di chi sa meglio di te, come di chi ha tutto compreso e sa che l’uomo è troppo malfatto per poter mai arrivare a capire. C’è sempre questo, pensava, quando uno è diverso, che non riesci a capire se sia di meno di te o se sia di più, ma più ci pensi e più ti convinci che è sbagliato pensarci e ti convinci d’essere tu il più scadente dei due. Forse era proprpio questo il motivo che la spingeva a parlare con Muto come si parla ai monti o all’acqua del rio, per sfogare la pena di tanto silenzio e intanto mettere ordine dentro la testa, dicendogli cosa che non avrebbe detto a sua madre e sapendo che tutto sarebbe rimasto un segreto suo soltanto e che lui non l’avrebbe mai giudicata.
Ma questo non le bastava per esser contenta.
Fosse stata in città, con gli amici, avrebbe discusso per ore dei dubbi che aveva.
Però non avrebbe cavato un ragno dal buco e alla fine, come sempre era successo, l’unica via sarebbe stata scrollarsi di dosso le parole come fossero croste di sporco, andare a letto con uno e sciacquarsi la mente. Il problema sarebbe rimasto, acquattato nei recessi dell’anima. Per cosa si parla? Soltanto perché stare zitti è fatica? Oppure si vuole qualcosa? E che cosa? Uno parla perché si vuole aprire, vuole far dono di sé? Ma ci riesce mai? Oppure vuole restare padrone di sé e pretende il possesso degli altri? Quel che si dice, il più delle volte non importa a nessuno e allora perché parlare? Forse Muto l’aveva capito nascendo e stava beato così, che non doveva farsi problemi. Però si riuscirà mai, stando zitti, a capirsi? Stava con Muto anche per questo, perché lui poteva essere la risposta a queste domande e per tutto il tempo che passava con lui cercava di capire, di sondare, di ragionare. Però alla fine arrivava contro un muro che non riusciva a passare. Spesso s’era chiesta se lei non fosse troppo qualunque, troppo scipita, troppo identica agli altri per meritarsi che lui le stesse dietro così e l’avvolgesse con quel suo sguardo pulito e denso d’affetto.
Aveva un ricordo che le pesava, un dubbio d’essere insipida e sciocca come tutti quegli altri che pensava insipidi e sciocchi. Un giorno Muto l’aveva trascinata nel prato, il paese distante, le aveva premuto le spalle, sorridente, e l’aveva stesa per terra. Nel tempo d’un amen s’era detta “Bene, questa è una cosa che posso capire, non ci sono mai volute tante parole, per questo. E’ tanto tempo che non lo faccio, ho voglia di farlo e lui non è male, chissà com’è con un ragazzo che certo non l’ha mai fatto. E c’è il vantaggio che non andrà in giro a raccontarlo ai quattro venti.” Lui le aveva sfiorato le palpebre, con le dita, abbassandogliele, e le aveva voltato il viso verso la luce. Lo sentiva fremente e, diosanto!, s’era sentita femere tutta anche lei e aveva aspettato col fiato sospeso che le mani lui la toccassero. Ma invece lui le aveva posato sulle ciglia qualcosa. Erano petali e lei s’era sentita sospesa nel blu, come un gorgo che l’inghiottiva. Non era riuscita a non averne paura e s’era scossa, levandosi di scatto, mentre Muto restava disteso, con due petali di genziana sugli occhi chiusi, sorridente, a lasciarsi cullare da quel senso di vuoto ammaliante e spaventevole. Ma s’era sentita sporca, come se la città l’avesse segnata per sempre.
Così, altre volte, aveva fatto quel che faceva lui, per arrivare a capire. Aveva tenuto il viso rivolto al sole, con le palpebre chiuse, e aveva visto fantasmagorici giochi di luce, fantasmi di rosso e d’arancio, di giallo e di porpora che s’avvolgevano e s’intrecciavano come fuochi fatui, come aurore boreali. E altre, vedendolo in ginocchio, col viso tuffato tra i fiori o tra l’erba, l’aveva imitato, per arrivare a capire quella sua voglia d’annegarsi nei colori del mondo. Aveva visto altre volte bestiole fermarsi incantate e vibranti, attirate dall’occhio d’un serpe, e questo era tutto quello che riusciva a concludere. Che per Muto i colori erano come per gli altri è l’aria da respirare. Darsene una ragione era troppo difficile, per lei. Avrebbe avuto bisogno che lui le spiegasse, che aprisse la bocca e pronunciasse pensieri. Lei era troppo poca roba per capire il silenzio.
Adesso, mentre la luna sorgeva sul filo dentato dei monti, affacciata al buio gonfio d’odori del vicolo, lo sentiva mugolare un pianto profondo e dare pugni sul lavotoio di pietra. Scese nel vicolo, gli sedette vicino e gli tenne le mani, tentando di lenire il dolore che gli leggeva negli occhi. La luna intanto saliva, gettando la sua gelida luce sui tetti ingrommati di muschio e sul po’ d’acqua rimasta in fondo al lavatoio. La Maestra vide Muto prendere il coltello e scavare una buca per terra. Lo guardò fare, scorata di non riuscire a comprendere, mentre Muto allungava la mano a raccogliere due pietre che stavano in fondo alla conca del lavatoio. Lo vide guardarle, adagiate nel palmo aperto, e il dolore dissolversi, scomparire la pena e il suo viso atteggiarsi alla gioia felice, mentre col piede ricopriva la buca che aveva appena fatto. Muto tese la mano e le sorrise, mentre lei guardava le pietre lucenti alla luna e sentiva dentro di sé come una vampata di luce.
Ripensò il sorriso felice di Muto quando trovava le pietre e scintillavano al sole e la pena crescente di lui mentre l’aria le asciugava. Lo ricordò tuffarle di nuovo nell’acqua e starle a guardare come rapito, finché nuovamente la pena e il dolore gli riempivano gli occhi. Poi lo sconforto con cui scavava una buca col coltello e ci seppelliva le pietre, coprendole con la zolla erbosa e disponendovi sopra dei fiori. E lei, stupida com’era, non era mai arrivata a comprendere quella semplice cosa. Per Muto le pietre erano vive, forse animali splendenti che voleva con sé perché simili a lui, bestie senza parole e prese a calci da tutti. Il suo tormento era di non riuscire a tenerle in vita, una volta tratte dall’acqua, di vederle morire poco per volta tra le sue mani, di essere lui a farle morire, volendosene fare padrone.
Doveva esser così!
Per certo era così e lei si sentiva dilatare d’orgoglio per esser riuscita a comprendere un anima anche senza parole, e la gioia più grande, che la sommergeva come un pensiero d’amore, era sapere che poteva fare per lui qualcosa di grande e di bello. Eccitata all’idea, lo prese per mano e lo tirò con sé, verso casa, dentro la sua cucina, quasi correndo.
Nella sua stanza frugò la borsetta e ne trasse un boccettino di smalto da unghie. In città se le verniciava di rosso ma qui, al paese, l’avrebbero guardata di storto, così non si dava più il rossetto alle labbra e lo smalto era trasparente, soltanto per lucidarle, le unghie. Una vanità trattenuta ma alla quale non voleva rinunciare. Forse per non sentirsi ancora del tutto forestiera alla città. Adesso, con quello, avrebbe resuscitato le pietre e le avrebbe fatto vivere a lungo. Sorrise tra sé al pensiero che sarebbe diventata gesù per due sassi e si chiese se anche quello là, alla fine, non avesse fatto che trucchi per incantare gente bambina dentro la testa.
La Maestra asciugò le pietre con uno strofinaccio dei piatti e per esser sicura le rivoltò sulla piastra della stufa e le tolse, poi, facendole ballare nei palmi e soffiandoci sopra per raffreddarle. Vedeva Muto agitarsi al suo fianco e bagnarsi le ciglia a guardare le pietre morire di nuovo. L’immaginava pensarla crudele e gli diceva abbi pazienza, non ti crucciare, aspetta e vedrai, abbi fede. E intanto sentiva il cuore agitarsi nel petto, al pensiero della gioia sicura di Muto. Tirò il fiato un paio di volte, per calmare l’affanno e fermare le mani, poi col pennellino coprì le pietre di smalto, stendendolo bene e compatto, e sorrise nel vedere gli occhi sgranati di Muto. Davanti a lui, la Maestra lo guardava e adesso lo comprendeva. Stava accadendo un miracolo, una cosa grande e bella e misteriosa, e dovette fermargli la mano che tendeva a toccare, con l’istinto dell’uomo che il mistero lo fugge oppure lo deve scoprire in punta di dita.
Quando la lacca fu asciutta, Muto prese in mano le pietre e le guardò scintillare, vive ai bagliori caldi del fuoco, nella debole luce d’una casa di povera gente. I colori più nitidi e tersi di quando l’aveva trovate eran tornati quelli di prima, persino più lucenti che prima, e più morbida tenera e dolce al tatto era la pelle. Pensava quanto più risplendenti sarebbero state nel sole. La Maestra vedeva gli occhi di Muto bagnarsi di gioia e sentiva dentro un nodo di pena per quel ragazzo non ben finito che la gente teneva lontano, non potendo capirlo, e che versava il suo amore sopra due pietre. Pensò che a qualcosa, almeno, era servito patire la vita in quel posto sperduto e di slancio volle fare di più, volle donargli la magia d’essere lui a ridare vita alle pietre, a fare il miracolo, d’essere lui dio per i suoi sassi. Spinse il boccettino verso di lui, attraverso il tavolo, e gli serrò le mani intorno, offrendoglielo, triste al pensiero di quanto poco bastava a farlo felice e triste anche perché sapeva che, dopo di quello, non poteva fare di più.
Il giorno dopo la gente, andando a far fieno o portando le vacche al pascolo, vide Muto seduto per terra, fuori di casa, con manciate di pietre stese al sole come fagioli a seccare. Lui s’era svegliato prima che il cielo sbiadisse ed era corso nel pascolo a riesumare tutte le pietre che aveva seppellito lassù e altre ne aveva prese nella corrente del rio. Le aveva lasciate morire al sole, sapendo che poteva ridare loro la vita, e le aveva sfiorate con le dita, chiedendo scusa di quel supplizio, ma promettendo che sarebbero rinate e avrebbero vissuto nell’aria, che ci sarebbero riuscite, grazie a lui e alla Maestra che gli aveva svelato il mistero. Seduto sulla soglia di casa le aveva verniciate con cura ponendole all’ombra ad asciugare e non stancandosi di guardarle beato. Sentiva il padre bestemmiare perché non usciva le bestie e non si dava da fare, ma non l’ascoltava e l’inveirgli contro del vecchio era un fastidio leggero, non più che il prurito d’una mosca che poteva scacciare solo aggrottando la fronte. Quand’ebbe finito lo smalto, e c’erano ancora pietre da far rivivere, Muto corse dalla Maestra per averne dell’altro e lei capì che poteva fare ancora qualcosa. Così, in mattinata la Maestra s’avvolse lo scialle intorno alle spalle e scese il sentiero fino al bivio e poi giù, a destra, per la strada in terra battuta, prendendo le scorciatoie, passando per fratte e boschetti che aveva tante volte pestato andando alla scuola o al piccolo cinema dell’oratorio e che le facevano riaffiorare ricordi di gioia eccitata.
Si era un gruppo di cinque o di sei, e a volte si faceva la gara per giungere primi e s’arrivava al paese con la lingua di fuori. Più tardi ci si metteva più tempo, fermandosi a volte dentro i cespugli a sfiorarsi le labbra e a cercar di capire cosa c’è di diverso tra un uomo e una donna. La Maestra, andando con passo allegro e facendo sbandierare la gonna, sorrideva al ricordo dell’ansia che la prendeva per il gusto inquieto di fare peccato e pensava quanta innocenza stava invece in quelle carezze date per sfida al proibito. Già da allora s’era convinta che fosse una vita ben grigia e noiosa quella che il prete ordinava al catechismo e da allora mai più aveva creduto che dio fosse così meschino da aver fatto tante belle cose solo per poi non volere che la gente ci mordesse dentro di gusto. Scendendo i sentieri ripidi che tagliavano i boschi, la Maestra sospirava quei tempi e poi i discorsi fatti con gli amici in città e le gioie provate, le carezze date e riprese col piacere d’essere liberi e di sentire le pelli sudate toccarsi. Ma qualcosa aveva, adesso, per sentirsi contenta e pulita e scendendo i sentieri frustava l’aria con una frasca di felce e fischiettava un motivo. Perfino le ragnatele tese tra i rami, che s’incollavano al viso e ai capelli, non le davano fastidio. La sua terra era quella, era fatta così, del sentore di muffe e di funghi, di resine e spore, di foglie marcite, di ragni e di lombrichi, di vipere. Ma di vipere oneste. Pane al pane, vino al vino. Se non mi pesti non ti mordo. Se mi pesti cerco di fare cosa posso. Chiaro e pulito, non come in città.
Vide un ramarro, che stava a scaldarsi sul fusto d’un rovere e si fermò, sorridendo di se stessa. Muto l’aveva contagiata, si disse, mentre s’avvicinava lentissimamente, per portare lo sguardo più vicino che poteva a quella pelle di smeraldo, fino a vedere soltanto più quello. Un’ondata d’un verde impossibile che la tenne bloccata finché il ramarro fuggì. Riprese il sentiero col petto fremente d’un’emozione che in città non si poteva provare.
In paese cercò il falegname e volle sapere quale vernice fosse migliore, quale più trasparente e più lucida, e se ne fece dare un campione. Poi fece festa a se stessa, andando a sedersi al Caffè e bevendo un liquore. S’accese una sigaretta e la fumò mentre vedeva gli sguardi di certi che la facevan sentire graziosa e irrequieta di tornare in città. Ripresa la strada, però, pensava gli anni che aveva trascorso a farla a piedi per lungo e per largo le avevano lasciato buone gambe ma reso il fiato più corto col fumo e i vapori del cielo. Invece qui, bisognava pur dirlo, l’aria era di specchio e accendeva le guance e faceva i sangue frizzante. Nel bosco, sui sentieri appena accennati, uno magari si sente solo e spaurito da quel silenzio, dalla pace interrotta soltanto dalla sorpresa d’un frullo d’ali o dal fruscìo improvviso di foglie secche e t’accorgi che solo non sei e basterebbe sapersi fermare e stare in silenzio, come Muto, per renderti conto di quanta vita s’annida dove pensi il deserto. Ma l’uomo è capace? Si sopporta il baccano delle città, pensava, si resiste al frastuono di bombe e alle urla angosciate ma il silenzio ci manda atterriti a strisciare in un angolo buio dell’anima.
Che razza di strana bestia, noi siamo, diceva a se stessa.
Il sole baluginava schegge di luce tra i rami dei larici e delle betulle e aleggiava nebbie di polvere d’oro sui cespi di felci e il mondo pareva un sogno di fate, ma uno ha bisogno che le meraviglie durino poco, ha bisogno di sedersi sulle immondizie per riuscire a capire quanto bello può essere il mondo. Una biscia stava esausta su un masso, stremata dal pasto, e dalle piccole fauci dilatate sporgeva la coda di una salamandra. Pareva, la biscia, non avere inizio né fine e, nel vederla, la Maestra si chiese chi avrebbe mangiato la biscia e poi chi avrebbe mangiato chi avesse mangiato la biscia e così di seguito, fino alla fine del tempo, come una giostra che gira e non potrai mai capire se stai davanti o di dietro e a chi.
I giorni dopo passarono tranquilli, ognuno uguale a quello di prima ed esempio di come sarebbe stato domani. Di diverso c’era soltanto che la Maestra sentiva la gente parlare della nuova stranezza di Muto, di stare per ore a verniciare sassi e a fare il suo nome la gente si toccava col dito la tempia e stringeva le spalle. Tutti, dopo lo sprezzo che si ha per i lavativi che non hanno mai combinato niente di buono, avevano pena per il padre di lui che era rimasto senza un appoggio e che, alla sua età, doveva farsi tutto da solo. Ma lei lo sapeva che queste non sono cose che il paese tiene a mente per molto. Ogni cosa successa, nel borgo, è come una pietra caduta nel rio, che un poco il corso lo cambia, ma l’acqua presto s’adatta e rimane la stessa e la nuova corrente pare quella di sempre. La gente si sarebbe abituata a vedere Muto seduto sulla soglia di casa con le sue pietre lucenti sparse intorno ad asciugare e avrebbe scrollato le spalle, pensando che male non ne faceva a nessuno.
Ma qualcosa di nuovo c’era, nell’aria, e prese Muto un mattino d’aria tersa come cristallo e di sole splendente. Può darsi che fosse un baluginare di luce su qualche ciottolo delle case dilavate dalla pioggia recente o una vena brillante sulle larghe ardesie dei tetti o che diavolo d’altro.Qualcosa fu, comunque che prese i suoi occhi e li tenne ben fermi, mentre l’idea, prima ancora d’essere espressa, gli faceva battere il cuore nel petto. Come una chioccia quando il guscio s’incrina e del pulcino c’è ancora soltanto l’idea che lei se n’è fatta, Muto già vedeva dentro di sé il domani e gioiva prima ancora d’aver finito il pensiero.
Tutto un paese rinato! Dio buono, questo sì che sarebbe stato un miracolo grosso, tutto un paese di pietre rinate, un paese tutto di pietre vive!
Muto corse dalla Maestra e la prese per mano e se la tirò dietro, per farle capire. La condusse nel vicolo, correndole avanti e guardandosi indietro se lei lo seguisse, poi riprendendo la sua corsa esultante, come fa un cane quando pensa il padrone convinto e s’avventa per la voglia d’andare, ma per strada si ferma e l’aspetta, fa andare la coda e abbaia e s’avventa di nuovo. Poi Muto intinse il pennello e prese a verniciare qualche pietra della sua casa e poi qualcuna di quella della Maestra e la guardò sorridente e fiducioso, facendo un cenno a tutta la casa, poi a tutte le case lì intorno.
La Maestra s’accorse che stava lì come una scema, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, e gesù!, pensava, ma gesù era poco, ci sarebbe voluto di più e ancora non sarebbe bastato per dire tutta la sua sorpresa. Tutto un paese dipinto! Ed era stata lei a mettere in moto questa faccenda che nella testa di Muto era lievitata e adesso non si fermava. Verniciare un paese! E poi cos’altro avrebbe inventato? C’erano i massi del greto e la pietraia, ai piedi del monte, e perche no? La stessa montagna, che aveva lastroni a strapiombo. Che fare? Dirgli sei matto, cosa vai a pensare? Spiegargli che non c’era vernice abbastanza, che la vernice ha un prezzo e lei non aveva soldi abbastanza. Che la magìa costa cara e lei non era ricca a sufficienza? Che tutto il suo miracolo si riduceva a una questione di soldi? Un paese che scintillava nel sole, aveva mai sentito un’idea balzana così. Aveva nemmeno mai sentito un’idea più bella, però, e forse la sua bellezza stava proprio nel fatto d’essere matta così. Ma alla gente che dire? E poi quanto denaro sarebbe servito? Le case non erano molte, ma erano case, mica conchiglie e quanta vernice ci sarebbe voluta? Doveva pensarci, ma intanto Muto avrebbe potuto cominciare con la sua, con quella poca che gli era rimasta e lei procurargliene altra.
Aspettò che la gente tornasse dai campi e iniziò il suo giro per tutte le case.
Alla Maestra lo stare in città e viverci dentro con gente diversa e con pochi pudori aveva aperto gli occhi quel tanto che tornando al paese e vedendo le cose da fuori, aveva fatto presto a scoprire le magagne di ognuno. E adesso che le serviva l’aiuto di tutti poteva fare buon uso di ciò che sapeva. Così si buttò sulle spalle lo scialle e bussò alle porte. Parlava all’uomo di casa e spiegava cosa voleva e le sarebbe spiaciuto davvero se la moglie fosse venuta a scoprire di lui e quell’altra o di qualcos’altro che aveva sulla coscienza. Il rischio era che si sapesse chi aveva fatto legna nel bosco tagliando piante non sue o chi aveva fienato nel campo di un altro, o chi aveva spostato i termini per allargarsi la terra. In paese, volendo, c’è molto da dire e ognuno nasconde qualcosa. Così la Maestra chiese ai maschi ai vespri, con le donne alla messa e ripassò al mattino, coi maschi al lavoro, per incitare le donne a dare qualcosa anche loro. Si rendeva conto che non era un sistema pulito e che avrebbe dovuto confessarlo, ma il confessore stava anche lui nel mazzo di chi doveva metter la mano in saccoccia, quindi la Maestra scrollò le spalle, scusando se stessa perché era tutto per un buon fine. E quei pochi su cui non c’era niente da dire li convinse dicendo che tutti gli altri avevano dato ed ebbe da loro per non esser da meno.
Finito il giro scese di nuovo al paese e disse al falegname, che la guardava basito, di portare su al Borgo con il furgone tutte le latte che aveva e di fare provvista di quella vernice, che al Borgo ne sarebbe servita moltissima.
Muto si mise al lavoro dall’alba al tramonto, con foga. Scrostava il muschio da ogni pietra della sua casa, la ripuliva e lavava, la verniciava con cura quand’era asciugata e, in cima alla scala o sul tetto a larghe sfoglie di pietra non provava neppure fastidio per suo padre che gli bestemmiava contro in continuo. Solo una volta che gli aveva rovesciato per terra un barattolo di vernice, con un calcio stizzoso, urlandogli dietro dio ti danni te e quella bagascia di tua madre, Muto era sceso con calma dalla scala a pioli ed era andato in cantina e con l’accetta aveva sfasciato un barilotto di grappa. Poi era tornato al lavoro, mentre il suo vecchio cercava, con una brocca di smalto scheggiato, di raccogliere quanto ancora colava. Dopo d’allora il suo vecchio non si fece più sentire. S’intanò in cantina a borbottare con voce impastata, bestemmiando contro quel suo figlio derelitto e il destino schifoso, poi contro la Maestra che gli dava spago e la gente del posto che s’era fatta incantare e contro il governo ladro che permetteva quella follia.
La vernice durò abbbastanza da finire la casa, muri e tetto e davanzali. Ce ne fu anche per far rivivere il legno del ballatoio e delle porte e quando Muto andò nel prato per vedela lontana e scintillante nel sole, tirandosi dietro la Maestra, vide che era proprio come l’aveva pensata, col sole che si frangeva sul muro in tante scaglie di luce. Anche la gente sciamò nel prato a guardare e qualcuno continuava a scuoter la testa, ma altri, i più, parevano presi da una frenesia, contagiati anche loro dal sogno. Qualcuno ancora aggrottava la fronte, mentre la Maestra parlava, qualcuno era in dubbio, ma i più stendevano le labbra in sorriso e accennavan di sì.
La Maestra diceva che la casa era più bella, così, più pulita e più sana, e che era una gioia per gli occhi guardarla e di questo dovevano rendere merito a Muto. Intorno si vedevano i picchi scintillanti di neve e il sole e il cielo stesso, ora, a primavera appena iniziata, inondavan di luce l’erba nuova dei prati e l’acqua limpida e tersa come una lama dentro i ruscelli e anche la casa di Muto. Uccelli garrivano in cielo, fiori spuntavan nei prati e tutto pareva esultare e rendere grazie di tanta bellezza. Ma non le loro case opache e qualunque. Un borgo di pietre morte e indifferenti al rinascere. Ma se avessero fatta loro la fantasia di Muto, se si fossero rimboccati le maniche, tutto il paese sarebbe diventato come un canto di grazie e alla pasqua vicina le campane avrebbero echeggiato rintocchi da tutte le chiese ma lì, al Borgo, il paese stesso, ogni muro, ogni tetto, ogni singola pietra avrebbero testimoniato che loro erano gente devota e il Borgo avrebbe brillato al sole e alla luna come un faro per tutti quelli della vallata. La gente avrebbe levato gli occhi a guardare il Borgo splendente, il più alto di tutti e di tutti il più vicino a dio e il più caro al signore.
La Maestra parlò e parlò, come fosse un comizio, non sapendo lei stessa da dove le venivano quelle parole in cui mai aveva creduto, ma continuando a trovarne e per la prima volta pensando che potessero servire a qualcosa. Parlò e parlò, incitata dai sorrisi, dai volti torvi che si destendevano e altre parole si affollavano nella sua mente vedendo sorrisi più numerosi, teste assentire, rendendosi conto che nessuno più tentennava, trasportato dalla foga del gregge. Parlò finché l’idea non fu penetrata in ognuno come un germe di malattia che macerasse la notte, nel sogno, e al mattino qualcuno venne, dicendosi disposto, anzi, impaziente di cominciare i lavori. Altri vennero dietro, cercando ognuno di non essere ultimo, di non far la figura di quello che non si cura di dio.
Si fecero scale e impalcature. Muri crepati o franati del tutto furon rifatti daccapo, vetri nuovi vennero posti alle finestre al posto di quelli rotti e tenuti insieme col nastro, le grondaie aggiustate e sistemato il selciato nei vicoli e in piazza. Le case furon raschiate e lavate, spazzata la polvere e staccate le croste di muschio tra una pietra e l’altra e verniciato ogni sasso del Borgo, come Muto mostrava dovesse essere fatto. La Maestra passava tra una casa e l’altra, nell’odore pungente della vernice, ed era stupita guardando la gente al lavoro. L’avevano ascoltata e avevan capito le sue parole, lei le aveva donate e loro l’avevano prese e capite e adesso erano loro i padroni dell’idea ed erano convinti di cosa facevano. Con gioioso stupore sentiva d’essere di nuovo figlia e sorella di quella gente che l’aveva compresa. Chi fischiava, chi cantava a gola spiegata, tutti si tiravano ad esser contenti e felici, a scambiarsi sorrisi, saluti e pacche sulle spalle. Le donne ogni tanto portavano vino e tutti si radunavano intorno al fiasco, contenti d’essere insieme e ristorarsi un momento con un bel coro tonante che echeggiava tra i monti e giù per la valle.
La Maestra pensava che forse Muto non l’avrebbe capito mai, ma questa era la vera magìa, il miracolo grosso, che la gente nel Borgo riuscisse a vedere se stessa negli altri e stesse con loro e ne fosse contenta. Muto pensava a tutte le pietre che avrebbero ripreso la vita, che sarebbero tornate splendenti ed era felice e si sentiva grande, per questo. Ma quanto più grande si sarebbe sentito se avesse potuto capire d’aver ridato la vita a tutto un paese di gente? Sarebbe mai riuscito a comprendere questo? Vedendolo in mezzo agli altri a dare una mano, invitato a bere un sorso di vino, con braccia che si posavano sulle sue spalle, sentendolo chiamato di qua e di là da uomini e donne, importante per tutti, la Maestra capiva d’aver fatto bene a dare retta al suo cuore, mentre la mente le diceva “Vaneggi!”. Si sentiva piena di gioia per lui e  quasi le pareva che il bene che gli voleva non potesse esser maggiore se fosse stata lei a fabbricarlo.
Ogni tanto Muto, posato il pennello, scendeva dalle scale e dai ponteggi e le andava vicino, se ne stava lì, davanti a lei a guardarla, con un’espressione ridente e gioiosa. Lei gli passava le dita tra i capelli irsuti e gli restituiva il sorriso, grattandolo dietro le orecchie come un cagnetto e gli faceva un cenno col capo. Muto, allora, tornava di corsa al lavoro con gli altri. Si chiedeva se l’avrebbero capito, questo, in città, quelli a cui avesse cercato di spiegare e sogghignava tra sé, immaginandosi gli sguardi ironici e la domanda scontata. “Era così bravo, a letto?” Non si sentiva più tanto sicura di volerci tornare, in città.
Venne la pasqua e il lavoro era finito. Alzandosi il sole alle spalle del monte tutta la gente fu fuori. Le campane oscillarono un paio di volte e poi i primi rintocchi staccati, poi più festosi. Uccelli erano già in volo nel cielo e i primi raggi del giorno accendevano scintille di luce sopra le case di nuovo vive. La Maestra volgeva intorno lo sguardo e vedeva che tutto era come l’aveva già visto dentro di sé ma quello che sentiva nel cuore non l’aveva previsto e a qualcuno voleva dir grazie di questa pace. Muto non c’era, però. Al primo cantare del gallo era salito più in alto nel prato, per avere negli occhi tutto il paese e vederlo palpitante di vita. La Maestra s’inerpicò verso di lui.
Se ne stava seduto a gambe incrociate, diritto, e guardava le ombre ritrarsi, lente fluire dai tetti e abbandonare il paese lasciandolo lì, immerso nel sole e sfolgorante di luce. La Maestra lo vide sfiorato e lasciato dall’ombra e salì verso di lui, per dirgli parole questa volta convinte, per fargli capire cos’era stato per lei, per dirlo a lui per primo che sentiva mancarle la voglia d’andare via, che non sarebbe partita, che sarebbe rimasta con lui.
Arrivata dov’era Muto, la Maestra fermò i passi di colpo col cuore sospeso, poi corse e cadde in ginocchio accanto a lui e lo guardava e non sapeva che dire. Con dita sconvolte sfiorava i capelli incrostati in duri cernecchi, le guance e le spalle e tutta la pelle del corpo lucente e vischiosa. Fermo. Solo gli occhi vaganti. Anche lui aveva voluto cantare, in qualche modo, lodi al signore.


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