La chiamavano arte bianca. Un tempo. Prima che scoprissimo la sostenibile convenienza dei fornai della Transilvania. Era un'arte bianca, rossa e verde. Adesso basta. Colpa del pane rumeno. Precotto, surgelato, riscaldato. E mangiato. Dagli italiani. Uno su quattro dei panini confezionati che troviamo nei supermercati e che mettiamo sotto i denti nelle mense e nelle tavole calde dei self service, è made in Romania. Baguette, filoni, pane a fette, pagnotte. Altro che eccellenza nostrana: il pane romanesti lo cuociono nei forni di Bucarest, di Timisoara, di Costanza, di Cluj-Napoca. Costa meno della metà del nostro e dura due anni. Lo sanno bene, prima di tutti, gli importatori. In Italia, alla faccia delle direttive europee, chi vende pane confezionato che viene da fuori non è ancora obbligato a scrivere sull'etichetta la reale provenienza del prodotto. E pare che siamo solo all'inizio. Lo dicono i numeri e lo temono i 24mila panificatori italiani che nell'ultimo anno hanno visto lievitare un'importazione parallela ancora più temibile, in quanto, di fatto, pienamente conforme alla legge. Le importazioni dalla Romania di prodotti a base di cereali sono più che raddoppiate nell'ultimo anno. Ben 1,3 milioni di chili, con un più 136 per cento. Un'impennata se si pensa ai 6.733 miseri chili di dieci anni fa. Il costo sul mercato di un chilo di pane prodotto lungo le sponde del Danubio non supera i due euro al chilo. Meno della metà di quello esposto nelle vetrine dei nostri panifici (4-5 euro). Non è un miracolo dell'economia. Né un effetto impazzito della crisi economica. La filiera delle baguette rumene si basa su un abbattimento dei costi di produzione e manodopera che l'Italia non può e non potrà permettersi. Fino al 60 per cento e anche oltre. Il pane dell'Est, per ora, è un giro di affari da 500 milioni di euro. Accanto ai 7,2 miliardi di fatturato dei fornai italiani pare un pezzo di mollica. Ma la lievitazione è in corso.
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La chiamavano arte bianca. Un tempo. Prima che scoprissimo la sostenibile convenienza dei fornai della Transilvania. Era un'arte bianca, rossa e verde. Adesso basta. Colpa del pane rumeno. Precotto, surgelato, riscaldato. E mangiato. Dagli italiani. Uno su quattro dei panini confezionati che troviamo nei supermercati e che mettiamo sotto i denti nelle mense e nelle tavole calde dei self service, è made in Romania. Baguette, filoni, pane a fette, pagnotte. Altro che eccellenza nostrana: il pane romanesti lo cuociono nei forni di Bucarest, di Timisoara, di Costanza, di Cluj-Napoca. Costa meno della metà del nostro e dura due anni. Lo sanno bene, prima di tutti, gli importatori. In Italia, alla faccia delle direttive europee, chi vende pane confezionato che viene da fuori non è ancora obbligato a scrivere sull'etichetta la reale provenienza del prodotto. E pare che siamo solo all'inizio. Lo dicono i numeri e lo temono i 24mila panificatori italiani che nell'ultimo anno hanno visto lievitare un'importazione parallela ancora più temibile, in quanto, di fatto, pienamente conforme alla legge. Le importazioni dalla Romania di prodotti a base di cereali sono più che raddoppiate nell'ultimo anno. Ben 1,3 milioni di chili, con un più 136 per cento. Un'impennata se si pensa ai 6.733 miseri chili di dieci anni fa. Il costo sul mercato di un chilo di pane prodotto lungo le sponde del Danubio non supera i due euro al chilo. Meno della metà di quello esposto nelle vetrine dei nostri panifici (4-5 euro). Non è un miracolo dell'economia. Né un effetto impazzito della crisi economica. La filiera delle baguette rumene si basa su un abbattimento dei costi di produzione e manodopera che l'Italia non può e non potrà permettersi. Fino al 60 per cento e anche oltre. Il pane dell'Est, per ora, è un giro di affari da 500 milioni di euro. Accanto ai 7,2 miliardi di fatturato dei fornai italiani pare un pezzo di mollica. Ma la lievitazione è in corso.
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