Negli anni settanta ogni giorno tutti andavamo a scuola a piedi ogni giorno, pochi o tanti passi si facevano per raggiungere l’edifico scolastico, con le nostre logore cartelle attaccate alla schiena, ma rigorosamente a piedi. Anche se pioveva forte o nevicava. Solo se c’era molta neve e per non rischiare di affondare con le mie scarpe, ero accompagnata da papà. Mio padre Antonio indossava un paio di stivali di gomma, erano quelli che usava per andare nella stalla o nei campi, non erano certamente Moon Boot, scarponi da montagna o stivaloni lunghi al ginocchio, adatti per la neve. A volte mi prendeva in braccio, io avevo soggezione, ma c’era la cartella a me avvinghiata a proteggermi. Era burbero, taciturno, grezzo nelle movenze ma onesto. Aveva cinquantuno anni il mio papà quando io facevo la prima elementare, ed era già vecchio d’aspetto, con i capelli bianchi e le rughe che gli solcavano il viso, un viso stanco e massacrato da tutto quel lavoro nei campi e dalle levatacce alle quattro e mezzo del mattino, per mungere a mano le nostre mucche. Sono convinta che mi volesse molto bene, mi ha desiderata molto, ma non me lo ha mai saputo dimostrare. Quando stava per imparare ad essere affettuoso, si è ammalato gravemente poi è morto. Tutto qua. Alle dieci e trenta puntuale ogni mattina, sabato compreso, tutte le cinque classi udivano il suono metallico della campanella che annunciava l’intervallo, la pausa, la tregua, il “coffee break”, si direbbe oggi. La mia maestra Pina Bellocchi e le altre sue colleghe, chiamavano ricreazione quei quindici /venti minuti di relax. Io ed i miei trentuno compagni (in prima eravamo in trentadue!), aprivamo in tutta fretta e con grida allegre, le nostre cartelle di cuoio marrone o verde.Cercavamo sul doppiofondo di estrarre qualcosa che era per noi fonte di amicizia e di condivisone:l’amata merenda e le figurine dei calciatori dell’album della Panini. Con molta ansia e fretta, compivamo i nostri gesti, avevamo fame ed estraevamo il sacchettino con la merenda! Poi i maschietti, tutti attorno ad un unico banco, iniziavano il gioco dello scambio delle figurine“manca, manca, manca, ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho….”Tanti occhietti furbi e svelti tra un portiere e l’altro (FIGURINA MOLTO AMBITA…),sbirciavano di sottecchi, che cosa c’era nel tovagliolo di stoffa a quadri bianchi e rossi degli altri. Io per tanti anni, mi sono ritrovata a far merenda sempre e solo con un panino, nemmeno troppo morbido, al prosciutto crudo di Langhirano. Ero sbeffeggiata e presa in giro dai compagni, ero “quella del panino al prosciutto”.Altri invece erano già alla moda e portavano le prime schiacciatine, il panino con dentro i formaggini “Il milione” quello che dava con i punti accumulati, la mucca Carolina, e Susanna tutta panna! Erano pupazzi gonfiabili di plastica, ricordo ancora quel profumo di plastica..Alcuni, quelli più benestanti portavano il gnocco comprato al forno, riconoscibile perchè era avvolto da una carta oleosa color azzurro, le bambine spesso avevano un pezzo di torta oppure “paneburroemarmellata”. Povera Fabianina! Ero così buffa, vestita con gli abiti dismessi dei cugini, sempre più grandi di due taglie, le scarpe almeno di un numero in più, così le utilizzavo per due inverni e quel benedetto, antipatico, ottimo, panino al crudo! Erano risate grasse quelle dei miei compagni, che sbocconcellavano il loro gnocco o sgranocchiavano le patatine Pai. I crachers o gli yogurt credo non li avessero ancora inventati, frutta o verdura cruda non usava portarla a scuola ed io piangevo e mi asciugavo le lacrime, perché con quella merenda sembravo ancor più distante da loro di quanto non fossi già. “Stefano, mi dai un pezzetto del tuo gnocco, per favore? Facciamo cambio, io ti do un pezzettino del mio panino e tu mi fai assaggiare il gnocco..” dicevo con la goccia che mi cadeva all’angolo della boccuccia. Il mio compagno di classe, bambino titubante e molto chiuso, con me andava d’accordo e parlava, dopo lunga ed attenta riflessione, accettava il cambio. Poi addentando il panino con quei denti ancora da latte, alla fine diceva che non era poi così male! Nei mesi seguenti anche gli altri, fiduciosi e curiosi, mi offrivano spontaneamente la loro merenda, in cambio di un pezzetto di pane al crudo, rimanendo estasiati per quel sapore genuino che non ho mai più ritrovato. Più avanti venne introdotto l’uso della carne di cavallo cruda, condita con olio e limone, poi messa all’interno di panini e gnocco. Le nostre mamme dicevano che era essenziale mangiare la carne di cavallo o puledro cruda, macinata due volte, perché era ricca di ferro. Noi bambine saremmo presto divenute donne, perciò facevano prevenzione, fornendoci anzitempo il ferro ed i sani principi nutritivi contenuti nei cavalli di quei tempi. Oggigiorno è per me impensabile mangiare carne cruda, di qualsiasi tipo, basti pensare a tutti gli steroidi, i farmaci e gli ormoni che molti animali ingurgitano,prima di finire nei nostri piatti, specialmente i cavalli se sono stati cavalli da corsa. Anche per me pian pianino arrivò l’era del gnocco imbottito con il salame, la coppa, la mortadella e alle scuole medie, potevo comperarmi “cento lire”(venti centesimi circa..) di pizza fatta al forno! Mi sentivo finalmente uguale agli altri, grande e donna già ad undici anni, con il mio elastico che aveva sostituito la cartella, e quelle cento lire in tasca per la pizza. Ho ripensato spesso a quella bambina piccola, con i capelli corti da maschietto, con il visino spesso triste, quelle scarpe più lunghe del suo piedino e quel panino al prosciutto. L’ho cercata ovunque ma non l’ho più ritrovata, nemmeno se guardo le fotografie di allora e nemmeno se mi sforzo di pensare a cosa posso aver esattamente provato nel mio cuoricino, quando i compagni sorridevano per via di quel panino.