Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa di Franco Matacotta
Il rosso dell'impeto e non dell'ardore.
Il rosso dello svenamento e non della passione.
Il rosso della lotta partigiana contro la barbarie nazifascista.
Il rosso del sangue che si versa e non quello dell'amore che si promette.
È il colore che il poeta fermano Franco Matacotta impiegò nel titolo di uno dei suoi lavori più noti, Fisarmonica rossa[1], una densa e dolorosa silloge di poesia dove il poeta vergò sulla carta la dolorosa esperienza della guerra. Lo fece quasi sempre con un linguaggio duro, tagliente, aspro e senza possibilità di redenzione. Le immagini, icastiche e pregne di una desolazione morale vergognosa, si trasmettono al lettore come vere e proprie pugnalate capaci di inasprire il tormento di chi, imbevuto di lotte civili e amico dell'intera umanità, sente ancora oggi sulla sua pelle -sebbene non abbia vissuto direttamente le vicende- l'ingiuria subita da un popolo che significò lo svilimento della coscienza, la mortificazione delle carni, l'autodistruzione del genere umano.
A conflitto mondiale ultimato, nel 1947 Matacotta prese ad insegnare a Civitavecchia chiedendo poi di poter essere trasferito nella sua Fermo dove, presso l'Istituto Tecnico Industriale, insegnò sino al 1950 ritornando, però, negli anni successivi a seguire programmi didattici nel Lazio (Lido di Roma, Subiaco, Tivoli). Lo spostamento successivo sarà quello verso il nord Italia, a Milano, dove resterà sino al 1962. Farà ritorno nelle Marche ma per un breve periodo, l'ultima sua presenza a Fermo, prima di stabilirsi definitivamente nel Genovese, a Nervi, dove nel 1978 morì. L'eredità poetica del Nostro, indebitamente poco coltivata, è assai notevole; contenuta in una serie di lavori poetici tra cui figurano Ubbidiamo alla terra (1949), Canzoniere di libertà (1953), Gli orti marchigiani (1959), La peste di Milano ed altri poemetti (1975), Canzoniere d'amore (1977) nonché la summenzionata opera Fisarmonica rossa interesse di questo saggio.
La visione del dolore e la vicinanza alla morte non sono ambiti che, col perdurare, possano permettere all'uomo che li vive di abituarsi, di soprassedere alle logiche nefande e proprio per questo il poeta fermano non può che impiegare la lirica come mezzo di riflessione, come interrogatorio esistenziale: le domande che pone non vengono risposte (e forse non possono avere una risposta congrua a completare il senso del quesito) e finiscono per essere dei dilemmi irrisolvibili che palesano la criticità del momento storico, la drammaticità degli eventi e la vulnerabilità mista alla disillusione del Nostro che così annota:
Alcune poesie della presente raccolta forniscono, sembrerebbe in presa diretta, i dettagli e le modalità di come, sulle basi di un'ideologia perversa, sia possibile debellare l'opposizione attuando nefandi sistemi di morte. Non è solo l'impressionante resa agghiacciante della morte che, spavalda, fa la sua comparsa nelle varie liriche a destare un sommovimento agli intestini, un senso di vero fastidio, ma la gratuità degli atti persecutori e l'efferatezza delle torture che spesso si associano a forme di spregio e vilipendio dei cadaveri.
Nel celebre "Canto del patriota marchigiano" assistiamo all'intenso ritorno di un patriota nella sua Regione per "riabbracciare i cani di una volta". La parola 'cane' non è usata qui in senso spregiativo a denigrare la popolazione marchigiana bensì a voler sottolineare nel popolo rimasto ancora in vita la sua condizione di randagismo, povertà, denutrizione nonché solitudine. Il ritorno nella sua terra, sebbene la guerra sia ancora in atto, potrebbe esser vissuto con una rinnovata speranza ma così non succede ed è, invece, dominato da una profonda desolazione interiore segno che la guerra sta operando ferocemente un'azione distruttrice anche nelle coscienze delle persone e, sfiduciato, dice: "Ah più non credo, più non spero in nulla". Roma, la Capitale di uno stato canaglia, luogo del potere e della legalizzazione del male, è una "vacca rognosa" (capace di infettare e spargere il suo male a macchia d'olio dove il male è chiaramente l'ideologia superomistica del fascismo), "culla d'angeli neri e rosse prostitute".
Nell'allontanamento dal luogo di sopruso e il ricongiungimento al luogo d'infanzia e dei cari il partigiano non ha risollevato il suo animo perché trova una terra assai diversa da come l'aveva lasciata, piena di dolore e distruzione, dove anche la casa familiare è "vuota e sola". La desolazione della casa e la s-personalizzazione che l'uomo vive, quella di non aver più un luogo caro nel quale identificarsi, viene fornita dal poeta assieme a immagini nette nel loro carico di violenza, sintomaticamente fedeli a proiettare una genia che ha perso la sua ritualità e dove la natura stessa sembra rivoltarsi tanto da proporci immagini disgustose ma assai reali come quella di un "cane magro e nero (che)/ su una chiazza di sangue a lungo lecca". Il sangue, che è vita, e che con il dissanguamento ha prodotto la morte, può ancora essere importante a qualcuno nel salvare un'esistenza anch'essa destinata al decesso.
Ma la guerra non è ancora finita e ben presto si sente il rumore della mitraglia che colpisce poco distante da lì. L'accostamento di immagini in sé stridenti come quella di "un ragazzo col capo dentro il petto/ (che) sanguina in mezzo al fango e alla paglia" e "la succosa nipote del curato (che)/ sta alla finestra per rifarsi i riccioli" acuiscono la vertigine del lettore dinanzi a uno scenario tanto maligno e aspro. La commistione di persone che al contempo muoiono trucidate e che invece paciosamente si aggiustano la chioma contribuisce ad esasperare la sfinimento. La banale azione rituale contrasta duramente, ma in maniera assai struggente e scevra da ridicolezze, con quella di un povero cristo dilaniato.
Nel ferro e nel fuoco che polverizza la campagna, la città, la Capitale e l'Europa tutta anche la più basilare e arcaica legge di natura, quella dell'attaccamento e dell'affezionamento incondizionato, vengono infangate nella bieca azione carica di sprezzo e di viltà: "L'amico sputa fuoco sull'amico". Non è fuoco metaforico di menzogna, basato su una maligna attitudine dell'uomo che lo porta all'acquisizione di un atteggiamento doppio e ingiurioso, è un fuoco reale, divampante e infernale, dove chi prima era amico, sul campo di lotta può diventare oppositore e dunque bersaglio contro il quale battersi. Per queste ragioni "il fratello è in agguato del vicino": la guerra spezza quell'universo prismatico di rapporti sociali preesistenti e consolidatisi nel tempo che divengono merce di poco conto, legami che il conflitto e il sistema di odi nullifica sotto un cielo costernato dalla consacrazione della stagione di un lutto perenne.
Il partigiano muore nei pressi del Tenna perché, di fede ideologica avversa a chi lo ha detenuto, ha rifiutato strenuamente di confessare o di rivelare informazioni appetibili per i nemici. La sua integrità morale e la battaglia in difesa di un mondo fondato sul riconoscimento dei diritti e della democrazia periscono dinanzi all'adozione della violenza e gli ideali partigiani, che costituirono le file della Resistenza non violenta, affogano nel clima d'odio e di vendette in quelle parole che si tingono di sangue. La lingua, da organo della comunicazione, diviene simbolo del martirio, della negazione della vita, dell'annullamento del dialogo e su di essa rimane forgiata una "scrittura di sangue" mentre il corpo martoriato del pover uomo è lasciato alla terra che nella decomposizione lo farà ritornare in essa sottraendolo allo spregio che ora lo vede straziato e circondato di "mosche, morte [e] cecità".
[1] Le citazioni sono tratte da questa edizione del testo Franco Matacotta, Fisarmonica rossa, a cura di Alfredo Luzi, Edizioni Quattroventi, Urbino, 1980.