Il partito della polizia di Marco Preve

Creato il 21 aprile 2014 da Funicelli
Il sistema trasversale che nasconde la verità degli abusi e minaccia la democrazia. L'abuso della forza e i casi di tortura come strumenti usati dalle forze dell'ordine. L'omertà nel denunciare questi casi e la protezione che la polizia mette in atto nei confronti dei responsabili. Che non sono poche mele marce. La polizia che si fa partito: i rapporti di amicizia con magistratura, giornalismo, partiti, imprenditori. Un sistema di potere che avrebbe scalato i vertici del dipartimento di pubblica sicurezza e che si sarebbe consolidato attorno alla figura di Gianni de Gennaro. Infine, i tanti soldi che vengono gestiti con troppa discrezione e poca trasparenza dal dipartimento, per appalti in tema di sicurezza. Tanti soldi che dovrebbero essere investiti in sicurezza, specie al sud, e che sono stati sprecati. Per imperizia. O peggio.

Questi i tre filoni in cui si articola il saggio di Marco Preve, giornalista per Micromega e l'Espresso. La tortura.

Se un'istituzione, nel nostro caso la polizia italiana, è più temuta che rispettata, allora vuol dire che ci troviamo in un paese che manca di rispetto a sé stesso, un una democrazia incapace di confrontarsi senza paure con una sua componente essenziale.Come potremmo altrimenti spiegarci la vicenda della scuola Diaz? Non le violenze della macelleria messicana, e neppure gli sporchi trucchi per falsificare le prove di un massacro: per quanto enormi e abnormi, sono episodi che che possono accadere. La differenza tra un regime e una democrazia sta, invece, nella capacità dell'istituzione coinvolta di mettersi subito a disposizione di chi ricerca la verità e contribuire a far luce; consiste nell'immediata rimozione da ruoli direttivi e operativi dei pubblici funzionari sotto indagine; si concretizza in una trasparenza, anche mediatica, con cui si informano i cittadini che gli incarichi degli indagati e imputati vengono congelati ..”.

In Italia questo non è successo. Sebbene le immagini del disastro della Diaz fossero note fin da subito, come fin da subito si capì che quella delle molotov era una prova falsa, come falsi erano i verbali e le prove presentate dalla polizia, nessuno dei dirigenti presenti a Genova e alla Diaz, durante la macelleria messicana, ha mai avuto problemi di carriera.
Genova, come le violenze alla Raniero pochi mesi prima, sono state considerate una pagina tabù della nostra storia e della storia della polizia. Da rimuovere: chi si permetteva di chiedere chiarezza, finiva per essere considerato un eversore. Uno che sta dalla parte dei black block. Perché quella sera, presenti subito dopo l'irruzione, c'erano i migliori investigatori italiani: dirigenti degli uffici centrali che avevano alle spalle arresti eccellenti nella lotta alla mafia. E che negli anni successivi avrebbero raccolto altri successi nella lotta al terrorismo (con l'arresto dei brigatisti che uccisero il giuslavorista Marco Biagi). Ma questo non giustifica niente: appare più assurdo, alla luce di questi successi, comprendere come queste persone, Gratteri, Caldarozzi, La Barbera, Fioriolli, abbiamo potuto commettere degli errori così gravi. La notte cilena di Genova è stata considerata da Amnesty “la più grave violazione dei diritti umani” della nostra storia. Eppure si è dovuto aspettare la sentenza della Cassazione che ha messo nero su bianco le responsabilità: non solo dei picchiatori in divisa che, in assenza del reato di tortura, non hanno pagato del tutto le loro colpe. Ma anche l'intera linea di comando. Ci sono voluti più di dieci anni. In cui la polizia non solo non ha chiesto scusa, ma nemmeno si è posto il problema. Che è soprattutto un problema di garanzia per noi cittadini: chi ci tutela dagli abusi? La politica che non controlla e che, anzi, ha pure protetto questi superpoliziotti (impedendo che si creasse una commissione di inchiesta)? La magistratura che non sempre indaga come dovrebbe su questi casi (ho in mente la difficoltà a far partire il processo sulla morte di Giuseppe Uva a Varese)? Il giornalismo, che in questi anni ha preso le parti degli indagati, ricordando le medaglie che avevano sul petto (per gli arresti eccellenti di mafiosi)? La polizia che ha aspettato 10 anni per chiedere scusa, nella persona del capo Antonio Manganelli? Sembrava che, dei De Gennaro boys, non si potesse parlare. Come non si potesse parlare dei casi di abuso del passato: la tortura per waterboarding in uso presso le squadre mobili d'Italia sperimentata anche da Totò Riina. Dai fiancheggiatori delle Br, ai tempi del rapimento del generale Dozier. Gli abusi di Napoli, al Global Forum della primavera del 2001, nella caserma Raniero: coi poliziotti stessi che vollero impedire l'arresto dei colleghi facendo una catena davanti la Questura. I reati commessi, tra cui anche il sequestro di persona, sono finiti in prescrizione. Le carriere dei dirigenti (come il questore Izzo) sono andate avanti. Da dove arriva questa anomalia? Dice all'autore Filippo Bertolami, poliziotto e sindacalista, “negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall'altro di punire chi ha 'osato' mettersi di traverso”. Vince la paura. E perde il paese.
Per approfondire l'argomento, il giornalista ha intervistato poi l'avvocato Anselmo: questi ha parlato del meccanismo di difesa che scatta nei confronti degli imputati in difesa. La denigrazione della vittima:
“A Federico, Stefano, Giuseppe e a tutti gli altri è andata così perché in fondo c'è una ragione. Perché lui se ne stava in giro alle cinque del mattino, perché l'altro era tossicodipendente, perché quello in fondo era balordo. Lo stato, una certa parte dello stato, ha bisogno che il cittadino reagisca con questi automatismi. E addirittura può anche sollecitarli”.

Il partito. Preve ha anche intervistato il pm dell'inchiesta sulla Diaz, Enrico Zucca. Il magistrato ha spiegato le difficoltà incontrate nell'operare assieme alla polizia per l'insofferenza nel ruolo assegnato con la riforma del codice penale. Ora è il magistrato che coordina, in autonomia rispetto alle pressioni della politica. Una parte della polizia ha difficoltà a rispettare questo ruolo perché ritiene che il campo delle indagini sia sua prerogativa; che per raggiungere i risultati si possa anche non rispettare tutte le procedure. Che il vero poliziotto da strada, prima si fa l'azione e poi si chiede l'autorizzazione. Come il famoso commissario Montalbano, personaggio che però ha sempre avuto rispetto per le persone:
“Non è un caso e non è una sfumatura che nel romanzo Il giro di boa che affronta la vergogna del G8, della Diaz e di Bolzaneto, il nostro commissario nemmeno si soffermi troppo sull'ovvia presa di distanza dalla violenza sugli inermi, ma s'indigni sulla falsificazione del verbale”.
Zucca si sofferma su un punto importate: non si potevano processare (né condannare) quei poliziotti per non privare il paese dei suoi elementi migliori. Una sorta di ragione di stato: ma dalle contestazioni mosse (e confermate dalla Cassazione) si comprende “una spaventosa sottovalutazione dei doveri che accompagnano l'esercizio dei poteri. L'aver sottoscritto un atto di arresto illegale, che costituisce il reato di calunnia oltre che di falso, viene concepito come una leggerezza..”.
Nessuno di questi superpoliziotti si è accorto del giornalista Mark Covell agonizzante a terra, ma non ha saputo spiegare come mai non si sia riuscito ad identificare nemmeno la firma del verbale d'arresto degli occupanti della Diaz. Ma queste persone non avevano di fronte dei super mafiosi. In aula, davanti ai giudici, nemmeno si sono tolti la divisa, come un cittadini qualunque. Conclude, il pm: “Non possiamo accettare di credere che questa istituzione non possa offrire schiere di funzionari capaci e onesti, in grado di rimpiazzare gli insostituibili.”. Per comprendere chi faccia parte del partito della polizia, l'autore cita le linee editoriali dei maggiori quotidiani italiani, di condanna per le violenze ma anche di copertura dell'operato dei vertici. Sempre per il principio che non si può privare la polizia dei migliori investigatori. Quelli dei verbali e delle prove false, abbiamo detto prima. Nonostante un'assenza di cultura democratica. Nonostante il cinismo dimostrato nei confronti delle persone picchiate e private della libertà. Ci sono anche i politici, tra gli amici del partito: la destra, che ha sempre difeso l'indifendibile. Ma anche a sinistra dove, nonostante fosse presente nel programma di Prodi del 2006, ha affossato l'idea di una commissione di inchiesta. Violante, il senatore DS e ora saggio del Quirinale, che aveva conosciuto De Gennaro ai tempi della commissione antimafia durante la stagione delle bombe della mafia. Peppino Calderola, intellettuale dei DS. Luigi Li Gotti, deputato Idv, difensore di Buscetta e difensore di Gratteri (l'ex capo dello Sco, condannato per i fatti della Diaz). Perfino una persona come Forgione, deputato di rifondazione e persona impegnata nell'ambito dell'antimafia, ha speso parole di stima nei confronti dei poliziotti indagati. Per i loro meriti passati. Amicizie ben rappresentate da una foto, scattata durante un attovagliamento all'hotel Eden a Roma nel 2009: una cena organizzata dall'onorevole PDL Destro alla cui tavola sedevano politici come Scajola, giornalisti come Annunziata, imprenditori come Bellavista Caltagirone. E anche Antonio Manganelli. Un affresco dell'ultra stato. Cosa voleva sapere l'imprenditore romano dal ministro e dal poliziotto? Il vicequestore Filippo Bertolami fa parte dei poliziotti indignados e dice:
Il collante di questo sistema si è basato da una parte sula debolezza crescente di una classe dirigente di destra o sinistra comunque in declino, in quanto balia degli sprechi, privilegi e scandali, dall'altra sul potere dei vertici di un Dipartimento della pubblica sicurezza trasformato negli ultimi anni non solo in un collettore di favori (passaporti, permessi di soggiorno, porti d'arma, sfratti, eccetera), ma soprattutto in un gestore centralizzato di informazioni riservate relative sia alle indagini in corso sia ai privilegi e vizi delle 'personalità' scortate, ormai esposte, più che agli attentati, al linciaggio dell'opinione pubblica, mentre tanti operatori della Polizia di Stato assistono indignati, seppur silenziosamente impotenti”.
Per concludere:
“Qualcosa potrebbe cambiare se ci fosse una presa di coscienza più forte all’interno della polizia di Stato, improbabile se non preceduta da un vero rinnovo della classe dirigente, che stimoli i più indignati a prendere coraggio.”
I soldi.
I soldi sono l'ultimo capitolo: lo stesso Manganelli ha ammesso nel 2012 (per difendere l'operato del suo sottoposto Nicola Izzo, coinvolto nell'inchiesta sugli appalti di Finmeccanica a Napoli) “noi non siamo formati per essere esperti manager nel campo della contabilità”. Peccato che quella contabilità, nello specifico, assommi a 1 miliardo e 200 milioni di fondi anche europei, per la sicurezza nel sud. Soldi che, se sprecati, sarebbero un favore alla criminalità organizzata. La cittadella della polizia a Napoli è stato un progetto stoppato. Vedremo ora come proseguirà l'inchiesta, nata dalla lettera anonima del "corvo", che ora è stata spostata a Roma. Marco Preve cita diversi episodi che hanno coinvolti funzionari di polizia e strane storie di soldi: il questore poi prefetto Fioriolli, a Genova, e i suoi rapporti (e favori e soldi) con l'imprenditore siriano Hadj Fouzi. Fioriolli è stato promosso direttore della Scuola di ordine pubblico. Mentre queste storie non hanno mai interessato né la magistratura né la polizia, per fare chiarezza. Diversamente da quanto successo al vice capo della polizia Izzo, finito indagato (ma ora la sua posizione è stata archiviata), in una inchiesta sull'uso dei fondi PON, appalti che hanno sfiorato il miliardo di euro, tutti decisi all'interno del Viminale. Una fetta di potere, gestito in modo assolutamente discrezionale dall'ufficio logistica per appalti sui Centri Cen (centro elettronico nazionale), sulla videosorveglianza, sul software da usare nelle pattuglie, sull'appalto affidato a Telecom per telefonia e dati. La relazione tecnica del prefetto Frattasi ha messo nero su bianco tutte le negatività di questa gestione: appalti concessi senza fare alcuna gara né alcuna analisi sul mercato, con tanto di secretazione.
Perché i poliziotti sono bravi nelle indagini ma non a fare i manager e, conclude la relazione, questi dovrebbero essere tolti dalla polizia e affidati ad un ente esterno.
Chi paga per tutto questo”, è la domanda che ci si deve porre: arrivati al termine del libro rimangono le parole usate dal giornalista, la polizia è il termometro della società. Se la società sta male, si riflette anche nell'ambito della sicurezza, perché in fondo ogni paese ha la polizia che si merita, come la politica che si merita e la burocrazia statale che si merita. Criticarne i malfunzionamenti (la difficoltà a premiare la meritocrazia, i meccanismi di copertura per i vertici, la poca trasparenza, i cattivi rapporti di ossequio con la politica) non significa essere contro.
È uno sprone per arrivare ad un modello più efficiente, moderno e “democratico”, anche per quella maggioranza silenziosa all'interno del corpo che soffre nel vedere tutte le situazioni qui raccontate. La scheda del libro sul sito Chiarelettere. L'intervista dell'autore alla trasmissione Pane Quotidiano, con Concita De Gregorio. Intervista all'autore sul blog Cado in piedi. I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

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