Il Pd è il partito di Amleto. Essere o non essere è il loro eterno dilemma senza soluzione. Al momento giusto sono sempre divisi, perplessi, insicuri. Sono indecisi a tutto. Si rimettono agli eventi e quando ci si rimette a ciò che accade significa che a sinistra ci si accoda alla Cgil, agli scioperi e alla piazza. Ma a cosa serve un partito che “funziona” in questo modo? Non saper decidere crea sempre dei problemi ma per un partito politico che vuole essere forza di governo l’indecisione è una sorta di peccato mortale. Se poi ci si autodefinisce “riformista” ma si è instabili e insicuri sempre e comunque sui tentativi di riformare il lavoro fino al punto di smentire se stesso e temere di avere e manifestare idee diverse dalla Cgil, allora, significa che si è sbagliato mestiere. Tanto valeva, piuttosto che dar vita ad un partito politico, iscriversi direttamente al sindacato e farla finita con le aspirazioni di governare con responsabilità un Paese moderno come l’Italia.
Perché il punto da tener presente è proprio questo: nonostante tutto – nonostante cioè le fallimentari politiche del lavoro della Seconda repubblica - noi siamo ancora un Paese moderno che punta a rilanciarsi superando la dualità tra chi è protetto e chi è abbandonato a se stesso. E’ su questo tema specifico, e non sulle astratte idee, che il Pd criticando aspramente il governo e il ministro Fornero e mettendo già un piede e mezzo in piazza si rivela in disaccordo con se stesso.
Massimo D’Alema – nei momenti critici a sinistra spunta sempre Massimo D’Alema, anche se notoriamente non ne ha imbroccata una - ha definito il nuovo articolo 18 “confuso e pericoloso”. La doppia definizione dalemiana sembra fatta apposta per il comportamento del Pd, quasi un’autobiografia. Confuso e pericoloso, infatti, è quel partito che prima dice una cosa e poi se la rimangia; confuso e pericoloso è quel partito che prima si aggrappa all’Europa come ad un’ancora di salvezza e poi la molla; confuso e pericoloso è quel partito che prima dà l’appoggio al governo e poi si agita e mobilita per appoggiare la piazza. Questo partito così pericolosamente confuso è il Pd che non ha mai scelto, in quasi venti anni di Seconda repubblica, non ha mai scelto in modo chiaro tra le sue due anime che ieri Michele Salvati sul Corriere della Sera riassumeva con i nomi di Damiano e Ichino. E proprio Pietro Ichino ieri, ancora in un “pezzo” sul quotidiano di via Solferino, diceva (e lo cito con formula diretta perché esemplare): “Quanto al Pd, esso dovrà innanzitutto chiarire a se stesso e all’opinione pubblica se condivide la scelta di fondo di armonizzare il nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto d’Europa, cercando in particolare di allinearsi agli standard dei Paesi più avanzati”. E aggiungeva il senatore del Pd: “L’incertezza del Pd su questo terreno è tanto più incomprensibile, se si considera che questo progetto del Governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito”. Capito?
Un poeta che si fece economista, Ezra Pound, diceva una cosa del genere: se un uomo non è disposto a battersi per la sua idea due sono le cose: o non vale niente lui e non vale niente l’idea. Pound era un po’ estremo nelle sue cose ma il senso della sua frase colpisce nel segno soprattutto se si interpreta in chiave politica. Il Pd si trincera dietro la legge e le analisi economiche ma il problema che ha dinanzi non è né legislativo né economico: è un problema di credibilità politica. Se, come ha messo in luce il senatore Ichino con grande onesta e chiarezza, le idee – e anche qualcosa in più delle idee - che sono alla base della riforma del ministro Fornero sono idee uscite dal Pd, allora, il Pd manca di coraggio nel rappresentare in modo politicamente adeguato le sue stesse idee. Ne manca a tal punto che proprio Elsa Fornero incontrando in Parlamento alcuni deputati del Pd ha dato loro dei consigli su come fare a dire le cose giuste e a comunicarle ancora meglio al Paese: “Non dovete focalizzarvi sull’articolo 18, dovete pubblicizzare tutte le cose che vanno bene anche a voi e su cui invece il centrodestra è contrario”.
Nella riforma proposta dal governo – è bene sottolineare i verbi: proposta - il Parlamento e i partiti politici diranno la loro e avranno modo di discutere, apportare modifiche e migliorare il testo. Perché il testo è senz’altro migliorabile: non è perfetto. E’ su questo aspetto specifico che il Pd, ma non solo il Pd, farebbe bene a concentrare le sue forze e i suoi sforzi. Per due motivi evidenti: primo perché è un ruolo che gli compete istituzionalmente e secondo perché è un modo per completare il proprio lavoro e farsi capire dagli italiani, quelli che hanno un lavoro, quelli che non ce l’hanno e quelli che lo cercano. Anzi, il compito del Pd come partito che sostiene il governo è proprio quello di sostenerlo e di dare il suo fattivo contributo al miglioramento del testo. Al contrario, se il Pd si lascia risucchiare dagli umori della protesta ideologica, dalla lotta sindacale, dal richiamo delle proteste di piazza, allora, né sorregge il governo né sorregge se stesso. Questi due aspetti – governo e partito - stanno assieme e cadono insieme. Può darsi che l’Italia giunga a questa riforma del lavoro quasi a tempo scaduto, mentre sarebbe stato molto meglio arrivarci anni addietro, o quando governava la destra o quando governava la sinistra. Ma che colpa ha il governo Monti se è stato chiamato a guidare l’Italia per riparare i danni fatti da chi già ieri e ieri l’altro non è stato all’altezza del compito di governo?
tratto da Liberal del 23 marzo 2012