Davanti all’evidenza, quando ti chiederanno spiegazioni, potrai nasconderti o dirti responsabile. Potrai dire che è solo invenzione, è solo una storia, solo un personaggio, è un sogno che hai fatto di notte e di giorno lo hai rielaborato. Potrai dire che è il frutto di un’intuizione in un momento particolare del pomeriggio, dopo il pranzo, sdraiato tra il sonno e la veglia. Potrai dire che è vero, l’hai scritto, ma l’hai scritto per esorcizzarlo, per ricordarlo, per cancellarlo dal tuo corpo. Potrai dire che era una preghiera, una lettera, uno scongiuro. L’hai scritto per scaramanzia, perché non succedesse davvero. L’hai scritto per ricordati che è successo davvero. Potrai prendere le distanze: se adesso è fuori non è più dentro. Potrai smentirti. Potrai dire che stavi scherzando, che è tutto falso. Puoi crederci, è tutto falso. Nessuno penserà che stai mentendo dopo che avrai detto a tutti che mentivi*.
Non avrai voglia di parlare, ti sentirai come dopo una febbre, solo guscio, svuotato, solo stanchezza, gli occhi allungati verso terra, il passo strascicato, la bocca secca, senza liquidi, senza forze. Ti sembrerà di avere detto troppo, o di averlo detto male. Ti pentirai, penserai che era meglio uscire, trovare una birra, una sigaretta, un posto dove scappare. Un altro corpo in cui scappare. Il silenzio. Penserai che è meglio il silenzio, che è la tua dimensione, non parlare, non ascoltare i suoni, non sentire i rumori, non essere disturbati dalle interferenze. Potrai avere paura e dirlo, potrai sentirti libero di avere paura, potrai sentirla l’unica passione della tua vita, che ti fa tremare, che ti chiede ragione, che ti inchioda e ti sprona.
Porterai un taccuino nella borsa, una penna, un cellulare su cui digitare di continuo, parlando con nessuno. Lascerai bianchi tutti i fogli, guarderai la realtà, la realtà che agisce, ti lascerai inghiottire, ne verrai fuori. Sarai la vita che hai vissuto e l’intervallo tra due primavere. Sarai il lungo letargo dell’inverno, lo strato sotto il quale riposano le rose e le loro spine. Sarai il tempo che tarda a fiorire, il risveglio delle colline, l’ascia del boia, sarai una nuova fine.
Potrai decidere di smettere di scrivere perché vuoi di più. Vuoi che l’impalcatura si costruisca da sé, vuoi vedere i personaggi sfilarti davanti, vuoi che abbiano un corpo proprio, che non somigli al tuo, che abbia più consistenza del tuo, un corpo che riconosci, un corpo che neghi, un corpo che si guarda le gambe passando davanti alle vetrine, che cammina senza fili, contro la tua volontà, per ostinazione e opposizione. Vuoi vederli agire quei corpi che sudano, che si contorcono, che si toccano, corpi che respirano, che scopano, col loro battito accelerato indipendente dal tuo. Vuoi che sia il tuo. Vuoi essere lontano dal loro. Vuoi essere reale, vuoi essere dimenticato, visto, dimenticato, amato, desiderato, dimenticato.
Puoi credere che scrivere sia il mezzo, che sia il fine. Puoi dire che scrivere sia una necessaria solitudine, che è il solo modo che hai per non sentirti solo. Puoi immaginare un lettore, una platea, non ci sarà nessuno. O sarà qualcuno migliore di quanto immaginassi, migliore di te. Crederanno di averti visto, per un attimo, una torcia nel bosco che subito si spegne, una traccia da annusare, neve fresca sul sentiero. Avranno ragione e avranno torto. Sarai più di questo, non sarai che questo. Proverai un senso di gratitudine e sconfitta, ti sentirai minacciato, ti sentirai accudito. Sarai il cane che piscia sul tappeto, sarai una voce che si è persa, che forse tornerà e forse non tornerà mai più. Sarà questo patto a stringervi, le parole scritte, le parole lette, quelle che non hai scritto, quelle che verranno fraintese, sarà la fiducia segreta che precede ogni incontro. Sarà un appuntamento mancato, la mano tesa e ritratta, sarà la mano stretta.
Ti parleranno dell’importanza della disciplina, una sera, su un tavolo di legno, davanti a una birra, ti diranno quant’è importante darsi un tempo, scrivere almeno un’ora tutti i pomeriggi, ti racconteranno gli espedienti narrativi per lasciare le vene sempre fertili. Ti verranno in mente le parole di Amélie Nothomb, scrivere tutte le mattine a digiuno, di Hemingway, abbandonare la pagina quando sai già come dovrà proseguire la storia l’indomani, di Erri De Luca, da soli in mezzo a una campagna all’alba. Ci proverai senza riuscirci. Grandi digiuni, grandi abbuffate, ecco cosa sei. Ma troverai riduttivo il mondo nella sua separazione manichea, ti affiderai alla complessità, al mistero degli elementi che si confondono consentendo alla terra di sopravvivere. Ti darai una risposta che subito rinnegherai, non lo so diventerà la tua risposta, l’incertezza la tua fede. Penserai di avere smesso come si smette un brutto vizio, come un’abitudine indossata per anni e improvvisamente persa. Pensi che ritornerà, non tornerà. Avrai fame, avrai sempre fame, cercherai di saziarla, cercherai di combatterla e nasconderla, cercherai di distrarla. Sarà un’ossessione a cui non potrai sottrarti, la vorrai, la cercherai ancora.
Perché puoi essere la pace e la tempesta, il piano dell’orizzonte e la mareggiata, la guerra che infuria dietro i vetri e il nido delle lenzuola, puoi essere la risata che esplode, il dolore che la gente non vede, la cicatrice e l’orgoglio, puoi essere la bestia e il genio, puoi illuminarti o sparire. Puoi essere la schiuma dell’estate e una notte interminabile, puoi essere una freccia e lo squarcio aperto, puoi essere il velo e lo sguardo che lo attraversa. Puoi essere il sangue e l’arsura dei campi. La terra emersa e l’occhio dello squalo, il ragno e l’insetto caduto, lo sparo del fucile e l’ala rotta. Puoi essere il ciclone che si abbatte e la mano che ricostruisce. Il veleno del serpente e il perdono di Dio. La promessa mantenuta e la menzogna dispersa, il nodo del vento e il bacio dell’amante. Puoi essere ogni cosa e il suo contrario. Puoi essere il gatto vivo e morto finché qualcuno non apre la scatola. Puoi aspettare chi aprirà la scatola. Puoi essere chi aprirà la scatola.
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*È Socrate, è filosofia del linguaggio, è Wittgenstein che fuori dai suoi occhiali rotondi parla di conigli a un’aula strapiena. È lo sguardo gettato nel vuoto, nel solo posto dove riesci a stare, è la tua sfida, l’attribuzione arbitraria di un significato, il principio ordinatore e il caos, è il verde dell’erba sulla quale corrono i conigli di Wittgenstein finché nuotando non scompaiono, finché non diventano i conigli di Faulkner, finché non resta che una macchia, un movimento, un guizzo verde sulla terra dorata, finché non resta una parola nel buio scintillante dove piove, piove, piove, piove, dove piove un’attesa verde, l’umida tensione del coniglio che sfreccia tra un filo d’erba e l’altro, tra una tua verde parola e un’altra, che riempie la stanza dove prima non c’era niente. Niente, dove non c’era niente.