Come Craxi al Midas, Renzi ha portato il suo partito alla resa dei conti. Scissione o no, rimane solo il leader. Che presto dovrà misurarsi col voto
A non reggere più è il progetto stesso che nel 2007 portò alla fusione a freddo tra post comunisti e post democristiani di sinistra. Quel patto sembra ormai compromesso, e non solo perché nel frattempo sono cambiati (e invecchiati) i soci firmatari. C’è insofferenza nell’ala del partito guidata da Pier Luigi Bersani e ora, clamorosamente, pure nel sindacato: non s’era mai visto - lo ha ricordato Paolo Franchi sul “Corriere della Sera” - un segretario della Cgil pronosticare una scissione a sinistra: ve li immaginate Luciano Lama o Bruno Trentin mettersi a fantasticare sui destini del Pci? O farsi promotori, come Maurizio Landini, di una formazione alternativa a sinistra? Nel frattempo, anche Enrico Letta e Romano Prodi, i leader dell’ala cattolica del Pd, sembrano ormai incamminati su un’altra strada: il primo chiama “metadone” il racconto che dell’Italia fa il capo del governo, insomma cura palliativa e niente più; il Professore addirittura lo disconosce come figlio dell’Ulivo.
Diseredato. Probabilmente Renzi l’aveva messo nel conto: impensabile che defenestrare Letta potesse restare senza conseguenze; e inimmaginabile che far finta di flirtare con Landini, non parlare con Camusso e poi augurarsi (intervista a Marco Damilano su “l’Espresso” n. 10) che scissione ci sia e che il pd abbia un nemico a sinistra, non portasse con sé malumori e mal di pancia. Certo, anche Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, aveva tuonato contro la Cgil di Sergio Cofferati «sorda all’esigenza di una riflessione critica, di un profondo rinnovamento». Ma alla fine, a differenza di Tony Blair, era stato costretto a fare marcia indietro. Correva l’anno 1997, stavolta il gioco è a parti invertite. Poi sì, e vero, anche i rapporti tra post-PCI e post-DC hanno conosciuto molti momenti di tensione, ma pur sempre dentro logiche di partito; oggi invece le minoranze guardano a Renzi come a un intruso, un estraneo, un altro da sé. E la lotta è all’insegna del “mors tua vita mea”.
Allora, come va a finire? Se perdono, i dissidenti se ne vanno o no? La storia della sinistra è costellata di diaspore: il Pci è nato da una scissione, Psdi e Psiup pure, Rifondazione Comunista fu il prezzo pagato da Achille Occhetto per la svolta impressa nel Pci. Ma oggi si sente più sapore di Midas che di Bolognina. Allora Bettino Craxi, 1986, rottamò i Padri Fondatori e mise in minoranza la sinistra del Psi costringendola a scendere a patti. Ecco, la situazione non è dissimile, e l’opposizione deve decidere se accettare o no il nuovo corso, cioè se lasciare il Pd rischiando un futuro da scheggia della sinistra, o testimoniare il proprio dissenso restando nelle stanze del Nazareno.
In quanto a Renzi, come sempre si sta giocando il tutto per tutto guardando al risultato, scommettendo su un’opposizione incerta, incapace di offrire una vera alternativa, e mettendo nel conto anche l’incognita di dover affrontare i momenti forse più difficili del suo governo - le riforme promesse e ancora in parcheggio - con un partito diviso e più debole, un parlamento ostile e un’opposizione frastagliata. Ma ormai il leader-premier sembra già altrove, lontano da Camera e Senato e dai loro rituali: il suo schema sembra prevedere non più la mediazione dei partiti, stanchi moloch di un passato lontano, ma il confronto diretto con i cittadini e con il loro consenso, per ora solo indirettamente espresso. Non gli resterà che andare a verificare come stanno le cose
Bruno Manfellotto
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