La mia domanda aveva un base: qua da noi si cominciava a percepire qualche rumore di fondo, il suono di qualcosa che si stava crepando, scricchiolii che diventavano sempre più forti. Si materializzavano gli scoop sui controlli fiscali dell'IRS aspri ed esclusivi verso le associazioni filo-conservatrici in campagna elettorale, i telefoni sotto controllo di una ventina di cronisti di Associate Press, e il caso dell'ambasciatore ucciso a Bengasi - emblema, fino a quel punto, di una politica estera vacillante.
Mi aveva risposto che gli americani erano un po' stanchi, soprattutto quelli come lei, che avevano votato Obama ma non avevano una connotazione politica genetica. Quelli che insomma, e sono tanti, in un sistema perfettamente e spettacolarmente bipolare, scelgono di volta in volta la proposta che ritengono migliore: ecco, quelli come lei iniziavano a pensare che Obama avesse un po' tradito gli elettori e il secondo giro glielo avevano concesso con il giusto scetticismo.
Poi arrivò il caso Datagate, che si trasformò con rapidità esponenziale in una cosa di costume. Infine la questione Siria: a far da intermezzo un discorso molto atteso sul clima - che ha convinto a metà e che molti hanno considerato pieno di contraddizioni, troppo pro-shale, quasi utopico per i tempi necessari alla concretizzazione delle disposizioni (un testamento, più che una politica esecutiva di programma) - e l'acquisto di un nuovo cane, che gli Obamas hanno chiamato Sunny, anche se di sole intorno al loro in questo momento ce n'è poco.
Economist - ottobre 2009
Qualche giorno fa il giornalista australiano John Pilger - ex corrispondente dal Vietnam - ha scritto un articolo sul Guardian: "The silent military coup that took over Washington" il titolo. Pilger accusa Obama di essersi preso in carico tutto l'intera linea militarista del suo predecessore - George W. Bush - e continuato a portare avanti diverse guerre: "un colpo di stato silenzioso", l'ha chiamato; "il nemico più pericoloso dell'umanità, risiede di là dell'Atlantico", ha scritto .Ne parlò già nell'ottobre 2009 l'Economist con una copertina che era tutta un programma (foto). Ora, dallo stesso settimanale londinese, si alza la voce dell'international editor Edward Lucas, che definisce Obama "il peggior presidente degli Stati Uniti dai tempi di Jimmy Carter" - e forse anche peggio di Carter, aggiunge.
Ma perché?
Molte delle colpe - molte e non tutte, perché alcune se ne porta appresso da un po', vedi sopra - stanno nell'indecisione con cui la questione siriana è stata gestita: al di là dell'impietoso giudizio di Lucas, oggi è difficile davvero trovare un senso alla politica estera statunitense. Tutto culminato negli ultimi giorni con la lettera/editoriale inviata da Putin al New York Times, che con ogni probabilità ha evidenziato - qualora ce ne fosse bisogno - la debacle e segnato il punto più basso, quello di non ritorno forse, toccato da un leader americano da decine di anni.
Obama un paio di settimane fa, ha annunciato - ed autorizzato - l'attacco al regime di Assad, poi (si dice dopo un incontro con il suo Chief of Staff, Denis McDonough, già consigliere di politica estera nel 2008, avvenuto in una lunga camminata di tre quarti d'ora) ha deciso di rallentare chiedendo il consenso del Congresso. Ma, mentre i suoi erano sul campo a far digerire la necessità dell'intervento armato, ha anche ribadito che il passaggio parlamentare non sarebbe stato un veto - nei suoi poteri, c'è la possibilità di decisione unilaterale sulla guerra. Nel frattempo però, ha chiamato personalmente tutti i suoi deputati e senatori, per convincerli sul voto positivo. Poi c'è stato il G20, dove è partito per San Pietroburgo con l'idea di portare con sé tutti i capi di stato mondiali. Risultato: soltanto Turchia, Canada, Arabia Saudita e Francia hanno manifestato apertamente la volontà dell'azione militare con gli Usa. Nel frattempo però che gli incontri diplomatici procedevano, il Segretario di stato Kerry s'è fatto sfuggire quel "non attacchiamo se Assad depone le armi chimiche" che gli è costato il blitz russo. Putin - non gli sembrava vero - s'è messo di mezzo come spesso ha fatto in questioni del genere, e ha trovato il varco per avviare le operazioni di mediazione (vittoria per Assad, che di fatto può continuare la sua azione interna; vittoria di Putin, amico di Assad, che diplomaticamente può passare anche per quello che salva il mondo). Kerry s'è sbrigato goffamente a dire che non intendeva quello che intendeva, che era stato frainteso - già sentita questa? - e che in realtà loro (gli Usa) erano ancora per l'intervento: ma un difetto di comunicazione ha fatto sì che nel frattempo Obama andasse in tv a dire che la resa delle armi poteva essere una buona idea e lui poteva starci. Difetto di comunicazione che ha anche preso di mezzo Susan Rice, Consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente, che aveva preparato un discorso per convincere la comunità scientifica di quanto buono fosse l'intervento: il discorso è andato, pronunciato senza far cenno alla possibilità della trattazione via Mosca, e per altro la Rice ha anche detto che tutte le potenze europee - compresa l'Italia - avevano dato il via libera all'attacco. Come se non bastasse, a ribadire le proprie non ottime doti di diplomazia, Rice aveva calcato la mano anche sulle Nazioni Unite, dicendo che le discussioni sulla questione siriana in sede Onu sono "vergognose" - a lei si aggiungeva anche Samantha Power, ambasciatrice americana all'Onu, che ha detto che "l'Onu è inutile". Le due, evidentemente nel misunderstandig generale, non avevano saputo che Obama aveva dato il via libera ad un'iniziativa in sede Onu.
Poi Obama ha fatto il discorso (10 settembre) sulla Siria: parole molto contraddittorie e fumose, poca consistenza, assenza di un piano chiaro, molta navigazione a vista. Il commento di Christian Rocca - direttore di IL del Sole 24 Ore - è il migliore in merito:
Obama ha detto tutto e il contrario di tutto: che ha già provato inutilmente le strade della diplomazia ma che le riproverà ancora, che l’iniziativa russa è una capitolazione alla politica americana ma che è scettico possa essere sincera, che non si risolvono le cose con le armi ma che in questo caso risolvono, che il suo intervento sarà limitato ma non proprio limitatissimo, che non vuole rimuovere i dittatori (che pena, Mr. President!) ma che i dittatori che uccidono i bambini devono essere fermati, che ha già deciso di attaccare ma che è meglio discuterne tutti assieme, che per agire non ha bisogno dell’Ok del Congresso ma che chiede l’ok del Congresso, anzi che ora chiede al Congresso di rimandare il voto, che la destra guerriera fa male a essere contraria a un intervento fatto bene e che la sinistra solidale non può stare a guardare le atrocità commesse, che l’America non è il poliziotto del mondo ma che quando può svolgere questo ruolo in modo semplice e con pochi rischi allora deve farlo (super mah), che da quattro anni e mezzo lui è nel business di chiudere le guerre.In tutto questo, arriviamo rapidamente ad oggi. Tutti parlano di "spiragli di pace" - si dice sempre così -, come se la guerra civile non fosse guerra. Magari non è la nostra, ma è quella di quelle cento mila persone già morte e che continuano a morire, di quei famigliari con i cadaveri in casa, dei milioni di rifugiati, fuggiti dalla guerra, appunto.
Con Putin, il mediatore, il peacemaker, che dice che Assad non ha utilizzato le armi chimiche, ma invece l'Onu ha pubblicato il rapporto su cui Ban Ki-moon ha detto “Confermiamo oggettivamente e inequivocabilmente l’uso di armi chimichecontro i civili.E’ un crimine di guerra. Le prove sono schiaccianti e inconfutabili”. Ma resta ancora il dubbio su chi sia stato il colpevole, anche se sembrano esserci scritte in cirillico su alcuni razzi al sarin.
Daniele Ranieri, sul Foglio ha spiegato perché però ci sarebbero prove circonstanziali - cioè non determinanti singolarmente, ma messe insieme possono essere significative - sulla responsabilità delle forze governative. Innanzitutto ci sarebbe la presenza di stabilizzatori rintracciati durante le analisi chimiche sui reperti (ne parla bene anche il NYT): le questioni riguardano il confezionamento degli ordigni, che sarebbe stato possibile soltanto in laboratori qualificati e non in circostanze artigianali come quelli a disposizione dei ribelli; a questo si abbinerebbe anche che i vettori di trasporto dei composti chimici, sarebbero missili da 140 e 330 millimetri, mai usati dai ribelli - che non ne hanno disponibilità -, ma invece usati dall'esercito anche senza condizionamento chimico. In più, tali missili avrebbero delle traiettorie di lancio compatibili con il posizionamento di alcune basi dell'esercito.
Ma i dati non contano più, dato che si è raggiunto l'accordo sul disarmo, e Obama sta lavorando al fianco di Assad per risolvere "pacificamente" la faccenda: e tutto grazie a Putin - che si candida a questo punto per il Nobel per la Pace. Poi sul campo la guerra si combatte, ma poco importa. Come poco importa che Obama è stato il Presidente che ha più spesso usato la forza e l'intervento armato negli ultimi anni. Più dei Bush e delle guerre infinite: Obama ha triplicato i soldati in Afghanistan, bombardato il Pakistan, lo Yemen e la Somalia, quasi attaccato la Siria e preso parte - da dietro le quinte - alla guerra "preventiva", così l'avevano chiamata, in Libia.
Di questo oggi parla Richard Cohen sul Washington Post, titolando "Obama un Bush 2.0" "ma non è un upgrade" dice. Cohen conclude il suo articolo dicendo che un Obama costretto a passare come un Bush "è ironico, ma non divertente": tutte e due hanno avuto a che fare con delle linee rosse. "Bush ne ha avuta una per delle WMD che non esistevano. Obama, alla fine, non ne ha avuta una per delle WMD che c'erano".
Dunque Obama è un guerrafondaio? No: Obama non ha mai avuto intenzione di utilizzare la leva militare, ci si è sempre trovato più o meno costretto. Obama è estremamente realista e cerca di tenere fuori il più possible l'America dalle questioni interne degli altri paesi - specialmente certi paesi - e non segue una linea scritta da questioni ideologiche o morali.
Ma, come spesso succede con Obama c'è un ma. Con questo comportamento, si è spesso ritrovato in situazioni in cui ha dovuto cambiare direzione, davanti a estremizzazioni di situazioni che sarebbero state evitabili (massacri di innocenti, per dire): fallimento pratico - politico, etico e morale, se si vuole - di una gestione che sempre più spesso, condotta fino a certi punti, lo obbliga e lo ha obbligato all'uso delle armi.
Questo detto senza preclusioni, liberamente, senza i paraocchi ideologici - anche di chi è postideologie - e soprattutto detto da uno che - forse è superfluo aggiungerlo (soprattutto per chi questo blog lo legge un po') -, Obama lo avrebbe sostenuto, votato e stimato. (Anzi, che un po' di Obama lo vorrebbe anche qua).