“Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa, mischiandoli beneficio e delitto”.
(Inno alla bellezza).
Bussola di tutti i pensieri di Baudelaire è l’Arte, che non ha altra finalità che la Bellezza. Essa è dunque estranea alla morale, e allo stesso tempo è la sola aspirazione degna dell’uomo.
Una bellezza, malata dunque, stravolta dalle droghe e dal vino, ma una bellezza autentica, proprio perché non velata da false ipocrisie e da stereotipi classici.
La bellezza in questo caso è l’orrore del quotidiano, quello che gli occhi sfuggono, la mente non vuole comprendere, l’essere rifiuta.
Per capire la poesia di Baudelaire, a mio modesto parere, bisogna guardare il suo “pennello”, la sua estensione visuale; dove tra i colori accesi delle notti degli eccessi, negli abiti sgargianti di ballerine dei bordelli parigini, nei chiaro scuri di fumosi caffè, nelle alcove madide di umori, nelle sagome senza volto di facoltosi avventori, nella sporcizia delle toilette mattutine di giovani prostitute; in quel mondo effimero che lega la notte e il giorno, in quei colori che solo gli occhi perversi vedono il male, Henri de Toulouse-Lautrec, ha donato una dignità a quella bellezza che la poesia di Baudelaire ha eletto canone universale.
Dipingere con i colori, ciò che le parole già abbondantemente descrivono e di per sé compito arduo.
Escludendo la morale, la bellezza diventa sublime, l’orrido muta in bellezza e poesia; nell’arte non vi può essere morale, ma colori, espressione pura della realtà.
Nei dipinti di Toulouse-Lautrec, i colori del quotidiano, esprimono meglio delle fotografie le sensazioni; i colori carichi, i visi appena accennati, le espressioni grottesche, le pose assurde, gli ambienti malfamati, e quei nudi sgraziati, quei corpi impacciati, che fanno bella mostra di se come quarti di buoi appesi al bancone di un macellaio, hanno lo stesso colore di quelle carni sospese e la stessa sensualità.
Il corpo è una merce, che si vende e si compra, che si mette in mostra, che s’imbelletta e alla fine si sbatte su un letto, per poterla gustare.
L’orrido del bello, la noia del quotidiano, lo “spleen parigino”.
Bene e male, innocenza e peccato, giorno e notte, dove il giorno nasconde sotto la luce di un sole benevolo tutti i peccati che il buio della notte commette, ma i colori del vizio, la sfumatura della perversione, sono troppo accesi perché siano diluiti con l’acqua santa di un falso perbenismo.
Questo sia Baudelaire che Toulouse-Lautrec lo sanno bene, e quindi fregandosene della morale, continuano il loro culto a una dea della bellezza così lontana dai canoni classici, così distante dagli incarnati virginei delle madonne cinquecentesche, così diversa e accecante che gli occhi si schiudono per non essere abbagliati, perché questa bellezza orrida è il fascino della realtà, l’incarnato della verità, la voce dei bassifondi dove il peccato è intriso in ogni cosa.
Cito:
“A guardare un quadro di Lautrec, difficilmente troverete qualcosa di vagamente simile alla bellezza”. Le sue donne sono brutte, decadenti, hanno carni violette rapprese da strani mali, e occhi corrotti, affaticati e lunari. Se sono di scena al Moulin Rouge, ci vengono incontro come bianche maschere, con quella dannata luce che viene da basso, sempre la stessa accentuazione del profilo, il mento che viene fuori come un artiglio, la guancia scavata, indigente e -sulla bocca- il colore guasto di un frutto andato a male. Quando qualcuno gli chiedeva perché ritraesse tutte le donne come fossero brutte, quella lingua velenosa di Lautrec rispondeva: “Perché lo sono”. Malgrado qualche crudeltà di temperamento, non faticò a diventare qualcuno a Parigi, i suoi cartelloni del Divan japonais o di Ivette erano praticamente ovunque e lui dipingeva continuamente, come preso da un fauvismo di creazione e candore. A notte fonda si spostava al bordello, che era a pochi passi dalle sale da ballo. Lì stava per ore con Mireille, che era la sua favorita e di cui abbiamo qualche scatto: uno -in particolare- mi ha impressionato per la durezza del corpo, la pancia grossolana, sporgente e i piedi tozzi, lunghi e allargati come quelli di un’anatra.
La bellezza sta negli occhi di chi guarda.
È appunto questa grazia sgraziata, quest’ opulenza nelle forme informi, queste luci forzate da can-can, questi tagli di traverso, che fanno dell’orrore l’essenza della bellezza.
Insomma sia per Baudelaire sia per Lautrec, non c’è bellezza senza orrore, non c’è metafisica senza la fisicità.
La bellezza plurale contro il bello unico ed assoluto, la bellezza nel difforme contro l’estetica dell’idealizzazione, l’allegoria contro il simbolo. E quindi il mito calato nella fangosità del reale, Andromaca in lacrime davanti a un fiume squallido parigino, altrove una Venere cenciosa e lampeggiante, un potenziamento, sur-caricamento della bellezza nelle pieghe lerce di una corruzione metamorfica. L’infinito nelle strade, come ci insegna Antonio Prete.
Medical inspection - Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901)