Sabato scorso in barba a qualsiasi legge fisica, che mi vuole ancorato al letto almeno fino alle 10.30, mi sono svegliato alle 8 per essere alle 9.30 bello pimpante come un cavolfiore per vedere la performance di Marina Abramovic al PAC, per l’Abramovic Method, appunto. Non essendo riuscito a trovare i biglietti per essere parte integrante del’istallazione artistica, mi sono accontentato di essere spettatore e così poter osservare dal vivo un’artista così famosa e la sua opera.
All’entrata, dopo aver perso cent’anni a capire bene che cavolo potevamo fare con sto cavolo di biglietto, mentre inviavo un tweet, mi pianto sulle scale e blocco il passaggio proprio a Marina Abramovic che magari mi avrà anche bestemmiato visto che io continuavo imperterrito a lottare contro il correttore automatico dell’iPhone senza accorgermi che la povera crista voleva passare. Un inizio in linea col mio solito grande stile.
La mostra era in realtà la performance, escludendo una sala tributo a “The Artist is present” in cui Marina fissava per sette ore e mezza i visitatori del MOMA di New York e una piccola retrospettiva video di approfondimento sulla sua poetica e i suoi lavori. Il resto degli spazi erano esclusivamente per l’esibizione.
Fatti salire noi spettatori sul piano rialzato, munito di binocoli e telescopi per poter osservare i dettagli delle persone, è entrata Marina che dopo una breve spiegazione sulla performance è uscita di scena abbandonando i suoi improvvisati performer con 33 euro in meno nelle tasche, alle formidabili assistenti.
Dopo una preparazione fisica, i protagonisti sono stati accompagnati a gruppi a sedersi su sedie impreziosite da minerali, stare all’impiedi sotto magneti o distendersi con del quarzo affianco. In questo modo la Abramovic dilata il tempo e lo spazio, concentrandosi su un presente lungo e silenzioso, momento di raccolta che dovrebbe spingere tutti a sentire, ascoltare, capirsi, tramite un percorso esperienziale lungo, statico e soprattutto criptico.
La performance è stata dunque noiosa. Terribilmente noiosa. Così noiosa che risultava ai miei occhi incredibilmente interessante. Non che mi aspettassi un concerto di Madonna, ma di sicuro pensavo che le riflessioni e le emozioni sarebbero state più immediate.
Mi è parso come se l’Incomunicabilità dell’arte contemporanea fosse la vera protagonista. Il percorso esperienziale dei protagonisti/opera d’arte non può essere compreso facilmente: noi spettatori non sappiamo cosa queste persone stiano provando, se non da piccoli dettagli, espressioni del viso e movimenti gestuali talvolta impercettibili e ben visibili tramite l’ingrandimento reso possibile dai binocoli. Mi è sembrata tutta una grande metafora: l’essere umano giunge dinanzi a un’opera d’arte contemporanea e spesso e volentieri si trova davanti qualcosa di cui non comprende assolutamente la tecnica, il messaggio, il potenziale speculativo. È la croce e delizia delle performance artistiche.
Egli, infatti, può forse cogliere qualcosa tramite l’interpretazione soggettiva, una piccola parte degli intenti e dei motivi, ma spesso e volentieri ne resta basito e se ne allontana incerto, fingendo a volte di aver capito, giudicando anche troppo facilmente. Lo spettatore, quasi superfluo, serve invece alla performance come se fosse necessario all’esistenza della performance stessa, Marina infatti si è espressa così sull’argomento:
“Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”
Consiglio vivamente di dare uno sguardo al documentario nelle sale superiori sul lavoro della Abramovic negli anni passati. Vale quasi da solo tutta la mostra.