Le vicende politiche della scorsa settimana hanno confermato l’impressione che la grigia stella di Mario Monti riesca a brillare solo nel continuo – e troppo comodo – paragone col Buffone di Arcore, da cui Monti non dipende esclusivamente per i voti parlamentari, ma soprattutto per l’immagine. Ciò avalla anche il sospetto che l’avvento di Monti fosse stato preparato già da un bel po’. Il crollo del sistema politico italiano non andrebbe quindi datato allo scorso anno, ma addirittura alla crisi del governo Prodi, e precisamente alla fine del 2007, quando l’allora segretario del PD, Veltroni, fu indotto a ripescare e riciclare un Buffone ormai politicamente defunto. La lunga e grottesca agonia politica del Buffone ha fatto da battistrada a Monti, creando quel clima di emergenza, anche antropologica, che ha consentito allo stesso Monti di presentarsi come il salvatore della patria.
La dissoluzione del sistema politico italiano ha le sue vere radici nell’assetto di potere sovranazionale, e non nell’opinione pubblica nostrana. Se un Bersani può considerarsi vincitore avendo perso “soltanto” il 50% dei voti, a fronte della perdita del 70% da parte del Pdl, allora vuol dire che non è saltato il “consenso”, ma un sistema di potere.
Quando l’astensionismo supera addirittura la soglia del 50%, come nelle ultime elezioni regionali in Sicilia, i primi ad essere scettici sono proprio coloro che adottano l’astensionismo elettorale come metodo politico. Il metodo astensionistico infatti non è motivato da astratte esigenze di purezza ideologica, ma dalla demistificazione del fantasma del cosiddetto “elettorato”; questo soggetto mitologico che sarebbe spinto da opinioni o dalla visione dei propri interessi di classe e di categoria.
In realtà, nel cosiddetto elettorato, il voto dettato dall’opinione o dalla valutazione prospettica dei propri interessi costituisce una quota minoritaria, mentre risulta sempre decisivo il fattore del voto organizzato; quello che spesso viene etichettato, con espressione impropria, come voto di scambio. Infatti lo scambio riguarda soltanto chi gestisce il voto organizzato, mentre la massa elettorale viene condizionata da pressioni o ricatti, che possono essere anche ammorbiditi da contentini in denaro o in promesse di posti. Non è sempre necessario riferirsi alla malavita organizzata più convenzionale, dato che nel Nord-Italia la Lega delle Cooperative e la Compagnia delle Opere gestiscono una grande massa di elettori, costituita da dipendenti di piccole e medie imprese controllati attraverso il ricatto occupazionale.
Quando l’astensionismo supera la quota del 50% ciò non indica più una disaffezione degli elettori, ma un disinteresse dei baroni del voto, che non trovano più nei partiti un interlocutore in grado di contrattare e di offrire qualcosa in cambio. Il sistema dei partiti gestisce sempre meno denaro pubblico e, non a caso, le ultime inchieste giudiziarie tendono a riguardare sempre più le forme di malversazione che si verificano attorno ai fondi dei rimborsi elettorali; grosse cifre se comparate con i redditi medi, ma briciole se si paragonano alle masse di denaro pubblico che la politica gestiva anche solo venti anni fa.
Il prolungarsi della cosiddetta crisi finanziaria toglie al pesce-politica l’acqua in cui dovrebbe nuotare, cioè il denaro pubblico. “Crisi finanziaria” è uno slogan di copertura, che serve a mascherare il vero interesse in campo, cioè tenere alto il costo del denaro per consentire alle banche che comprano titoli di Stato di lucrare più interessi. Paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo sono diventati la gallina da spennare, ma la recessione va a minare le fondamenta anche di Paesi forti come la Germania o la Francia.
La “dittatura delle banche” è un’espressione suggestiva ed in parte vera, ma non è in grado di spiegare come le banche possano imporre la loro volontà a tutti i governi; una parte dei politici può essere corrotta, ma non c’è certo il denaro per comprare tutti, visto che le banche hanno bisogno dell’aiuto finanziario dei governi.
Il potere delle banche è un aspetto dell’attuale sistema di dominio, ma l’altro è quello militare. Bisogna però chiarirsi sul termine “militare”. Il Pentagono non è soltanto un’entità militare, ma è un vero è proprio ministero delle partecipazioni statali, il più grande che si sia mai visto, e che gestisce un suo capitalismo di Stato, finalizzato alla produzione e vendita di armamenti. Nel 1970 un libro dell’economista americano Seymour Melman, “Il Capitalismo del Pentagono”, pose in evidenza questa realtà, dimostrando come il “complesso militare-industriale” fosse ormai un dato superato, dato che l’intreccio tra militarismo e affari non procedeva più in modo informale, ma attraverso un organismo centralizzato – il Pentagono appunto -, diventato il più colossale apparato di spesa pubblica della Storia. [1]
Un articolo di Maurizio Molinari su “La Stampa”, del dicembre dello scorso anno, forniva il resoconto di un dibattito fra esponenti del Pentagono e della Federal Reserve sulle modalità per gestire i rischi connessi alla crisi finanziaria europea. Al centro delle preoccupazioni c’era, ovviamente, la sorte dell’affare del millennio, cioè i caccia F-35.
Come evitare che i governi europei rinuncino al costosissimo mega-businness? Visto che i soldi scarseggiano ed il consenso elettorale non si può più comprare, come si proteggono allora le basi militari ed il business della vendita di armi ai governi europei? Per indovinarlo non ci vuole un grande sforzo mentale, visto che il Pentagono paventa un “rischio-rivolte” in Europa, e presenta i pericoli per il personale americano di stanza in Europa come la potenziale giustificazione per adottare misure non meglio specificate, ma di cui si intuisce il senso. [2]
Il giornalista Maurizio Molinari è una specie di portavoce del Dipartimento di Stato USA, perciò il fatto che si facciano filtrare certe notizie assume il tono di un ammonimento per le classi dirigenti europee. Gli F-35 per il Pentagono non sono un affare come gli altri, e chi li tocca potrà ritenersi fortunato se morirà senza troppe sofferenze. Appena nove mesi fa il Pentagono ha fatto sapere ufficialmente ai governi europei che non si fa commuovere dalle loro difficoltà finanziare, e che l’Europa deve spendere di più per la difesa. [3]
Tanto il pericolo sovietico non esiste più, perciò non c’è neppure più motivo di tenere ancora in piedi la facciata del “Mondo Libero”. Se la finzione democratica costa troppo, allora a tenere a freno le masse scontente ci penseranno le armi e le provocazioni delle PSYOPS. [4]
Del resto, sino a qualche anno fa chi avrebbe potuto immaginare che la Libia sarebbe stata espugnata a colpi di bombe e di attacchi di truppe coloniali spacciate come “ribelli per la democrazia”?
Gli F-35 peseranno come un macigno sulla finanza e sull’economia italiane dei prossimi decenni, e ciò spiega il crescente malessere personale di Beppe Grillo, il quale è abbastanza lucido da capire che per lui i veri guai sono appena cominciati.
[1] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://books.google.com/books/about/Pentagon_capitalism.html%3Fid%3D0kJBAAAAIAAJ&prev=/search%3Fq%3Dpentagon%2Bcapitalism%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvns&sa=X&ei=nTCOUPqTOonktQa69YHwDA&ved=0CEEQ7gEwAw
[2] http://www.lastampa.it/2011/12/11/blogs/finestra-sull-america/rischio-rivolte-il-pentagono-valuta-l-ipotesi-eurocrac-FLQfnnYdEkFQqjbOCK1toL/pagina.html
[3] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.policymic.com/articles/3888/top-pentagon-official-european-governments-to-spend-more-on-defense-u-s-to-take-a-supporting-role&prev=/search%3Fq%3Dpentagon%2Beuropean%2Bunion%2Beuro%26hl%3Dit%26biw%3D960%26bih%3D513%26prmd%3Dimvns&sa=X&ei=inmNUJSNIIfUtAaerID4Cg&ved=0CEYQ7gEwBA
[4] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.usar.army.mil/ourstory/commands/USACAPOC/Pages/Overview.aspx&prev=/search%3Fq%3Dpsyops%2Busacapoc%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvns&sa=X&ei=9GyRUPLbKtHAtAbGq4DIBQ&ved=0CCkQ7gEwAA