Pressoché coetanei (Kubrick, luglio 1928; Leone, gennaio 1929), i due maestri del cinema hanno sviluppato le loro memorabili carriere in maniera parallela, apparentemente con pochi punti di contatto. I due non hanno mai fatto mistero della loro reciproca attrazione: l’equilibrio raggiunto da Leone nell’utilizzo delle musiche di Morricone ha influenzato il lavoro di Kubrick, quantomeno da 2001: Odissea nello spazio in poi; dal suo canto, il regista italiano ha omaggiato Arancia Meccanica in C’era una volta in America nella scena della nursery, con qualcosa che definire citazione sarebbe estremamente riduttivo. Detto questo, le differenze tra i due maestri rimangono sostanziali. La specificità di Kubrick sta nell’essere riuscito a dare letture magistrali di svariati generi cinematografici: guerra, fantapolitica, dramma psicologico, fantascienza, peplum, ricostruzione storica, noir, horror, la sua pur non sterminata filmografia ha segnato la storia di ognuno di questi filoni. Viceversa, la gloria del regista trasteverino è legata indissolubilmente a un unico genere. Certo, se la morte non l’avesse colto ad appena sessant’anni, Leone avrebbe probabilmente dato prova della sua maestria in altri generi: se la svolta formale di C’era una volta in America rappresenta pur sempre una proiezione temporale dell’epica violenta del western, il progettato film sull’assedio di Leningrado, su cui stava lavorando al momento del fatale infarto, avrebbe rappresentato uno stacco ben più netto dal suo genere prediletto. Evitando di addentrarmi nelle evidenti differenze tecniche tra i due, anche a causa delle mie insufficienti competenze specifiche, ricordo solamente il diverso approccio letterario: la riduzione filmica di fonti letterarie dirette, prerogativa di Kubrick, si contrappone ad echi e reminiscenze che Leone fa confluire in soggetti e sceneggiature autonome (a parte la nota controversia con Kurosawa di Per un pugno di dollari).
C’è stato un momento, però, in cui i due maestri si sono confrontati quasi contemporaneamente con lo stesso genere cinematografico (il Peplum), anche se la riduzione a tale genere, per quanto riguarda il film in questione di Kubrick, è necessariamente forzata. Nel 1960, il regista inglese, già sostenuto dall’apprezzamento della critica per i precedenti Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, venne chiamato da Kirk Douglas, protagonista in Orizzonti di gloria, a sostituire Anthony Mann per il film Spartacus, un peplum atipico che non lasciava nulla alla mitologia, con una ricerca non sempre precisa della dettagliata ricostruzione storica, in cui il senso epico veniva proiettato esclusivamente in un orizzonte di lotta per la libertà, nell’evidente partigianeria degli autori per gli oppressi. Kubrick non si trovò a suo agio in una produzione inquadrata nelle convenzioni hollywoodiane, ma riuscì comunque a creare un melodramma idealista e rivoluzionario che conquistò quattro Oscar. Appena un anno dopo, Sergio Leone girò il suo primo film, Il Colosso di Rodi, un Peplum decisamente più convenzionale, anch’esso caratterizzato da uno sfondo di lotta per la libertà, ma molto più sfumato e stereotipato. Sergio Leone non era nuovo al genere: nel 1959 era subentrato a Bonnard, colpito da malattia, nella regia de Gli ultimi giorni di Pompei ed in precedenza aveva avuto importanti ruoli direttivi nella produzione di Kolossal come Quo vadis e Ben Hur. Nonostante la trama lo potesse suggerire, Leone non si curò di evidenziare la lotta dei ribelli contro il delirio del tiranno, giunto all’apice proprio con la costruzione del Colosso, ma si preoccupò di sviluppare al massimo la spettacolarità delle varie scene, evidenziando comunque il suo talento (memorabile la sequenza dell’incendio, causato dal Colosso, a bordo della nave con cui i ribelli volevano forzare il blocco del porto). Piuttosto che connotare in senso politico e sociale il film, Leone lo venò di un senso dissacrante, con il protagonista (un eroe greco) che pare un viaggiatore nel tempo finito casualmente nell’isola dell’Egeo, proprio nel momento dell’inaugurazione del Colosso. Per non parlare delle frequenti cavalcate che svelano inconfutabilmente il vero polo d’attrazione dell’arte cinematografica di Sergio Leone.