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Il peso dell'aria.

Creato il 22 giugno 2011 da Enricobo2
Ieri pomeriggio faceva un caldo soffocante, il primo caldo vero dell'estate, con l'umidità che si appiccica tra stoffa e pelle e ti fa sentire sempre sudaticcio e a disagio. Su questa piana alessandrina, dove le infinite spighe di grano cominciano a piegare la testa come stanche di vivere e il mais alza le foglie al cielo agonizzando acqua, alla fine di giugno non arrivi più a vedere lontano. L'umido e il calore che sale dalla terra offusca l'aria, annebbiando le cose che paiono tremolare verso l'orizzonte quasi non fossero reali ma fantasime maligne. Anche la macchina sembrava faticare mentre cercavo il paesino dove tra i campi è sorta una nuova grande casa di riposo. Che nome ingannevole e crudele in questa espressione che abbiamo coniato per questi non luoghi dove il nostro modello di società, capace dello straordinario risultato di allungarci la vita, non ha saputo trovare soluzioni differenti, accettabili. Un albero ancor giovane, davanti all'ingresso sotto il quale si raggruppano un gran numero di carrozzine, con le loro statue di sale immobili che ti seguono però con gli occhi traboccanti di domande mute, mentre entri. Ho saputo che qui è ricoverata la mia professoressa di italiano della terza Liceo, ma sì, quella di cui vi ho già parlato, che mi dava sempre quattro. La troviano nello stanzone che funge da sala da pranzo, magrissima, come allora per la verità, e immobile sulla sua seggiola davanti ad un bicchiere di thé. Quando le spiego chi sono, sembra aggrottare per un attimo la fronte, come a ricercare in quel passato lontano, offuscato dall'umidità calda.
Finge di ricordarsi di me; le enumero un po' di compagni, quelli più bravi, i suoi preferiti, che le davano qualche soddisfazione; quello alto e biondo che è diventato ammiraglio, quello piccolo, poi professore di lettere come lei e proseguo l'elenco di tutti i migliori a cui forse era più affezionata, che oggi sono grandi medici o famosi avvocati, ma il suo sguardo vaga nel vuoto, cerca appigli che non trova, preso da altri bisogni contingenti e più reali, il dolore, la coscienza del proprio stato, la solitudine dura e cattiva, quello che ti circonda, con i tuoi compagni che si lamentano, che si muovono compulsivamente con gesti reiterati o solo in cerca di un contatto con la vita, come straniti da un luogo sconosciuto o all'opposto ormai abituale. Rimaniamo a lungo senza parole vere, contrabbandando per reale un chiacchiericcio utile solo a riempire il vuoto. Come allora ci vede poco, ma al di là delle spesse lenti, ci senti un desiderio di contatto che ancora non si spegne. Le ho portato il mio libro, non per farla ricredere sui suoi giudizi di un tempo, ma tanto per convincerla che erano serviti di stimolo, che forse anche tutti quei quattro mi avevano dato qualche cosa. Mi sono raccomandato, ridendo, che lo leggesse con attenzione, magari sottolineando con la matita rossa e blu come allora, le bestialità più marchiane, le costruzioni troppo avviluppate e cacofoniche su cui insisteva tanto. Le ho ricordato la sua predilezione per il Pulci e Sperone Speroni, che ci aveva lungamente illustrato a danno di Parini a Foscolo, ma la sua bocca si è solo un poco increspata in un sorriso di convenienza. L'abbiamo lasciata vicino allo stesso tavolo nella grande sala con le finestre chiuse, gli occhi perduti nel vuoto, il bicchiere di thé ancora pieno. Si sa, i vecchi bevono poco e hanno sempre freddo.
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