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Basta guardare sulla carta geografica i confini della Giordania, per aver subito un’immagine chiara del destino del paese nella regione. Profughi; che arrivano da ovest, dove c’è la Palestina, ma da qualche anno arrivano anche da nord, dal conflitto siriano che ha riempito i campi di accoglienza. Ultimamente quelli che scendono dai confini settentrionali del paese, sono raddoppiati: adesso si muovono anche da nord-est, dalla confinante provincia di Anbar, in Iraq, area di partenza delle conquiste dello Stato Islamico; sono soprattutto cristiani, cacciati dal radicalismo del Califfo.
Accoglienza: una politica intrapresa già da re Husayn I (che emanò la legge n.6 del 1954 che permetteva ai profughi, quasi esclusivamente palestinesi ai tempi, di ottenere la cittadinanza giordana senza troppi sforzi) e continuata dal primogenito Abdallah II, al governo dal 1999.
La politica inclusiva giordana, è stata talmente aperta che la popolazione attuale è spaccata – anche in senso sociologico – tra due etnie: quella autoctona, la transogiordana, e quella palestinese. Si stima che la metà della popolazione abbia origini palestinesi, conseguenza dell’enorme esodo che dal 1948 – l’anno della Nakba – fino ad oggi, ha spostato oltre 2 milioni di arabi di Palestina (dati UNRWA). E i profughi palestinesi hanno spesso creato problemi ad Amman, nonostante fosse l’unico paese dell’area ad aver tolto la scritta “profugo palestinese” dai loro passaporti e avergli prospettato un futuro pari ai cittadini del regno – invece in altri stati, come Siria e Libano per esempio, i “rifugiati palestinesi” hanno enormi difficoltà a condurre una vita simile a quella dei comuni cittadini.
Episodi come il “Settembre nero” del 1970 – quando il rea Husayn scampò a diversi tentativi di assassinio e riuscì a reprimere (con l’aiuto israeliano in rappresentanza degli USA) l’iniziativa delle fazioni più radicali dell’Olp, che dall’enclave di Karamesh studiarono un piano per sovvertire l’ordine e prendere il controllo del paese – sono ancora fermi nella memoria. Un equilibrio delicato tra le due culture ancora non del tutto fuse, aggravato in questi ultimi anni dai nuovi flussi migratori, che si sono inevitabilmente portati dietro anche il “marcio” della guerra civili siriana: un equilibrio che in questo momento, sia il governo che i giordani-palestinesi vogliono mantenere stabile, tenendo il jihadismo lontano dal paese.
Servono aiuti, però: per questi la Giordania ha fatto leva proprio sulla propria politica di accoglienza, pressando la comunità internazionale e chiedendo in cambio dell’azione umanitaria supporto economico e sostegno politico. Soprattutto negli Stati Uniti, dove anche le lobby hanno giocato un ruolo chiave.
La Giordania è un paese povero di risorse (soprattutto acqua, ma anche idrocarburi, sostanziale particolarità rispetto al resto della regione). Con le minacce ai confini, la prioritaria sopravvivenza della monarchia hashemita, è diventata ancora più impegnativa per gli Usa. I panel del Congresso hanno confermato il sovvenzionamento per 660 milioni di dollari annui al regno, divisi più o meno equamente tra supporti all’economia e aiuti militari (compresi training e attività counter-terrorism). A questi se ne aggiungono altri 338 che l’Amministrazione ha stanziato direttamente come “soccorso umanitario” ai profughi siriani (arrivati ormai a seicento mila).
Amman ricambia, mantenendo ormai una linea completamente dipendente dalle volontà occidentali, su tutti gli affari strategici del Medio Oriente – la Giordania è uno dei 14 (solo 14) alleati non-Nato degli Stati Uniti, e l’America è molto preoccupata per la stabilità del trono di Abdallah. Obama stesso ha definito il paese «un grande amico e prezioso alleato»: al pranzo a Sunnylands con il sovrano, ha promesso di mantenere in piedi il pacchetto di aiuti (in scadenza)per puntellare l’economia giordana.
I rapporti diplomatici del regno sono fortemente legati ai rapporti diretti del Re: le relazioni internazionali sono affidate a lui in persona, sebbene la Giordania stia pagando lo studio legale White&Castle per attività di consulenza sul diritto internazionale (costo 270 mila dollari annui) e la Vivien Ravdin per migliorare il settore “comunicazioni istituzionali”. E nelle stanze di Washington, la rappresentanza comincia a farsi sentire di più anche grazie al lavoro di pr delle due società.
Nelle relazioni, c’è un lato oscuro però, che riguarda una causa contro la Arab Bank (istituto di Amman che ha rappresentato tra il 20 e il 33% della capitalizzazione di mercato della Borsa locale) che gli Stati Uniti hanno accusato per aver facilitato operazioni bancarie e rifornimento di denaro alle famiglie di diversi esponenti di Hamas. Un tribunale distrettuale ha dichiarato colpevole la banca per non aver fornito i nomi dei “clienti”, l’istituto si è difeso facendo appello alla policy interna sulla privacy. Abdallah ha chiesto l’intervento di POTUS per mettere un pietra sopra alla vicenda, Obama non si è mosso. Il primo ministro giordano ha fatto appello a John Kerry affinché la Corte suprema ribaltasse la sentenza di colpevolezza del tribunale distrettuale, sostenendo che la banca stava solo rispettando le leggi giordane sulla privacy: ma niente.
Data la rilevanza della banca, il fatto è un grave danno di reputazione per la Giordania, che potrebbe destabilizzare l’economia locale. Circostanza che avrebbe ripercussioni politiche interne che costituirebbero un ostacolo per gli sforzi statunitensi di stabilizzazione del Medio Oriente.
Scrive il New York Times che la questione ha diviso l’amministrazione Obama, tra funzionari del Dipartimento di Stato, che temono di perdere un alleato strategico fondamentale, e quelli del Tesoro, che pressano sull’assenza di privacy davanti a certe richieste. (Alla fine, per il momento, l’hanno spuntata gli uomini di Jacob Lew).
Anche la politica estera sulla Siria, adottata dalla Casa Bianca, ha messo in difficoltà la Giordania, esponendola eccessivamente. È noto che le forze speciali americane, utilizzino un campo di addestramento in un canyon poco a nord di Amman, dove vengono preparati i ribelli “selezionati” alla guerra contro Assad. La Giordania ha più o meno negato sempre, tentando di abbassare (almeno ufficialmente) il proprio coinvolgimento e cercando di mantenere una posizione di opposizione di equilibrio tra l’opposizione ad Assad e il rischio che la Siria diventi un campo di battaglia internazionale appena fuori il confine.
Ad Amman, c’è pure un centro di coordinamento di attività di intelligence, in cui la Cia collabora con servizi giordani e sauditi all’interno del territorio siriano. Adesso è lecito pensare che la struttura aumenterà le proprie attività, anche in vista della possibilità dei bombardamenti contro l’IS in Siria.
E il ruolo di partner occidentale, ritornerà di primissimo piano. Arab Bank a parte.
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