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Io non riesco a capire, dicevo, non riesco a capire questi giovani - e sono tanti - che si drogano o si ubriacano prima di una serata di follie...
Perché?, m'hanno domandato.
Mah, lo chiamano sballo e intanto si perdono il piacere. Perché io, se voglio divertirmi, eccedere, godere, voglio capire che sto godendo, voglio sapere di spassarmela. Saperlo è una parte essenziale di questo piacere, non importa quanto trasgressivo sia, voglio sentire tutto ciò che desidero e che realizzo, perché lo voglio. Perché bramare il piacere e poi dimenticarlo?
Tu, mi obiettano, tu hai un'idea piuttosto alta di piacere.
Può darsi, possibile, ho ribattuto pronto. Ma non la baratto con nessun'altra.
E per questo ho ripreso in mano Il Piacere di Gabriele D'Annunzio. Non che condensi la mia idea in merito, anzi, ricordo che al liceo l'avevo rifiutato, non ci avevo capito niente. Però, se si parla di piacere, andiamo da chi ne ha fatto una religione. Credo sia d'accordo con me, in qualche modo, perfino Bontempelli, che nel 1938, in un discorso commemorativo (forse il suo più ispirato), così parlava di questo romanzo.
Sì, Il Piacere, questo romanzo che i suoi coetanei hanno trattato come un poema di lussuria compiaciuta, che le madri proibivano alle figlie, pagina del diavolo: questo che tutti si figuravano scritto dietro la tenda di un'alcova, se oggi lo rileggi vedi che è stato scritto dietro la grata del confessionale, tanto è una confessione addolorata e coscienziosa.
Fatto sta che torna qui il tema inestricabile della sofferenza. E mi viene il dubbio che abbia ragione chi, in risposta al mio dubbio di partenza (perché godere senza saperlo), dice che in realtà questo piacere non è altro che l'oblio della sofferenza o un'ulteriore ferita che non si ha la forza di sopportare. E allora perché ballare, toccare, baciare, allora perché la lussuria, il cibo, perché l'altro, perché il gioco con la mia anima e con il mio corpo, e un altro o tanti altri, perché godere se basta dimenticare se stessi insieme al proprio dolore?
E vabbè, si gode anche senza saperlo. Lo dice pure Vecchioni, in una canzone (Saggio di danza classica e moderna) che, insomma, non è dedicata ai balletti russi: la condizione indispensabile è di non parlare / fino alla finezza irraggiungibile di non pensare. Ma io non credo, lo dico così per dire, non credo di essere l'unico incapace di immaginare una ricerca del piacere e ritenermi soddisfatto quando l'amante di turno, al mio risveglio, mi dice: è stato bellissimo e hai goduto tanto che t'ha sentito tutto il condominio. Ok, e io dov'ero, scusa... no, mi bastano un paio di coordinate. Io dov'ero col mio piacere? Mi riguarda davvero un piacere trasparente a tutto me? Ed è quello che cercavo?
E poi, a dire il vero, già che ci si toglie qualche sassolino dalle scarpe, io mica capisco quelli che di proposito ci mettono pure il dolore in mezzo al piacere (anche perché il contrario raramente avviene). Non son tipo da torture, da quel pizzico di imperfezione che valorizza il resto. 'O famo strano, magari!, ma borchie e catene, je vous en prie, da un'altra parte. Canta saggiamente Renato Zero, basta avere voglia e buone mani. Son fatto alla buona e un po' all'antica, va'.
Perciò. Prendete un po' Andrea Sperelli. Va dietro come un pazzo a quel pezzo di Elena che a un certo punto piglia e se ne va. Sai?, amore, io ti adoro, ma ti devo lasciare. E questo capita. Ti guardano un po' così e tirano giù Copernico e tutti i Santi, ti spiegano il principio di indeterminazione di Heisenberg, ma di dirti perché se ne vanno non se ne discute. E vabbè. Arrivano le altre, tutte ricche, sciantose, uno schianto di conti in banca e tesori un po' più esibiti sotto i corpetti e Andrea ci va giù pesante. Poi non ti va a pescare Maria Ferres?, che - gioia mia! - sarà pure notevole, vestita lì con l'ermellino, ma io proprio non la reggo. Sembra venir fuori da un'opera di Puccini, prende in prestito il frasario assorto e lascivo di Giacosa e Illica ed eccoti lì una paranoia ambulante. Sai?, io ti adoro, ma non posso stare con te.
Per essere un sbruffone lussurioso, 'sto giovanotto, c'ha una gran sfortuna. E sarebbe solo uno di quegli accidenti della sorte se lui non si mettesse pure a far confusione. Sovrappone le due immagini e crea quella di una terza donna che non esiste. Spasima per Elena, che insomma: merita, non sa trarre nessun piacere da Maria, che più noiosa non si può, e viene ossessionato da una dissolvenza incrociata. Io, che tutto mi si può dire, ma non son quei che disvuol ciò che volle, e insomma, ho le idee un po' più chiare di Andrea, sto lì a guardarlo parlare e mi chiedo cosa voglia e gli dico: spassatela! Ma lui bla-bla-bla. E chi lo ferma. Sembra un poeta a soldo che s'ubriaca e si mette in testa di scrivere un romanzo, poi non gli riesce e ti impiatta la sua vita. Voilà, mesdames et messieurs.
Perché io mica ci credo che questo qui è un romanzo, e non ci credeva neanche lui: gli aleggiava il soggetto in testa e diceva di voler scrivere forse un romanzo; e, poi, vedremo. Per ora rumino, qualche cosa ne verrà fuori, hai capito, no? Infine si decide che decidersi non può e lo chiama poema moderno e ti frega. Va giù, va giù, fai pure l'abitudine alla sua pro-sia e superi le pagine sfidando la legge di gravità e le norme di buona educazione. Andrea, D'Annunzio dico, vive in un mondo su cui io che cerco il piacere difficilmente inciamperei. Dov'è questo piacere, nella contemplazione? Nella tristezza che lascia? È come arrivare tardi al porto con la macchina carica di ombrelloni e creme solari e decidere di passare le vacanze sulla scia appena visibile della tua nave (o di un'altra). Sarà questo, dev'essere questo il dolore di Andrea Sperelli, questo non godersi il piacere, ma indugiare sulle cicatrici di attese e di parole che ha lasciato.
Andrea, lui, vive una lussuria poliglotta, come dire che, in preda a una crisi di sonno, un uomo vada chiedendo in giro come si dica caffè in turco. Eppure la sua ricerca è compulsiva, a modo suo sincera, sistematica. Andrea Sperelli, lo spocchioso, l'insostenibile, l'ipocrita Andrea non è uno qualunque e sa ben distinguersi dagli altri, fatti non foste a viver come bruti. Ma è il piacere a fare la differenza? Il giovane don Giovanni traduce in vita raccontata quella che è arte e capisce che non basterà mai a saziarlo: pur consumandosi nella sua fame, il vanesio narciso ora si ammira, ora si arrampica sullo specchio che dovrebbe portarlo fino al sublime, mentre il piacere riecheggia da lontano l'impossibilità di carpirlo fino in fondo. Forse, dice Andrea, il piacere non si può provare e sapere, e mi ha anche risposto. Così torno a Bontempelli:
Ma l'uomo non è una cosa della natura. L'uomo è innestato nella natura per necessità demiurgiche, ma a un certo punto della formazione umana c'è una discontinuità, e di là da questa l'uomo diventa un contrapposto della natura. Affondiamoci in tale considerazione, e presto troviamo che fondamentalmente l'uomo è uomo appunto in quanto non è natura.
Perché l'uomo deve creare storia, mentre la natura è tutta formata, finita; essa non ha che da riprodursi e mantenersi come sta, nella infinità dei tempi e della materia; ma il suo schema è fermo. Sopra lo schema fermo della natura, l'umanità fluisce e si forma.
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