Tutto è accaduto quando il malefico e-reader si è bloccato mentre stavo per iniziare a leggere Il Cardellino di Donna Tartt (ma se vogliamo è accaduto prima, quando preparavo la stramalefica valigia e per la prima volta nella mia vita non vi ho messo carta stampata dentro). Fatto sta che mi sono ritrovata all’improvviso senza libri da leggere. Sorvoliamo sulle imprecazioni: ho percorso una ventina di chilometri di tornanti e chiesto innumerevoli indicazioni per arrivare all’unica libreria di Brixen, che gli italiani si ostinano a chiamare Bressanone. Laggiù, terra straniera: pochissimi libri in italiano, scelti a casaccio, situati in uno scaffale in fondo, in fondo. Superato lo sconforto iniziale, mi son detta: alla fin fine non mi è andata così male, hanno un libro della Tartt! E mi sono tuffata ne Il Piccolo Amico con enorme sollievo e grandi aspettative.
Sin dalle primissime righe mi son trovata avviluppata in un dramma atroce: la morte irrisolta, l’inspiegabile assassinio di un bambino colpisce come una saetta una famiglia durante la festa della mamma. I danni che ne derivano sono irreparabili: la madre fugge nel mondo ovattato dei tranquillanti, dove si lascia spegnere e ingrigire, il padre si rifugia nel proprio egoismo, cercando una vita altrove, le zie trasformano il piccolo Robin in un santino immutabile, fissato in miriadi di episodi curiosi e teneri quanto immaginati. Le due sorelle di Robin, abbandonate a se stesse, crescono in questo limbo famigliare, in cui l’intera vicenda diventa tabù ed è quindi coperta dal silenzio. Dieci anni dopo, Harriet –una dodicenne ruvida e precoce- decide di lacerare l’amnesia che ha volutamente imbozzolato il ricordo dell’uccisione del fratello mai conosciuto e parte alla caccia del suo assassino, contando sull’appoggio del fido Hely (undicenne innamorato di lei). Fin qui la trama funziona benissimo, sorretta da una scrittura riccamente decorata, perfetta. Anche troppo perfetta.
Quello che invece inizia a traballare è la trama, che si disperde in mille rivoli secondari, attraverso decine e decine di pagine: gli episodi, quasi tutti ininfluenti ai fini della ricerca, si incollano malamente l’uno all’altro, costituendo un parquet di legni diversi, sconnessi e mal piallati sul quale la lettura procede a fatica.
Anche lo stile ne risente, appesantito da una miriade di aggettivi , dettagli inutili, ripetizioni. Più della metà del libro (685 pagine!) ruota attorno al tentativo infinito di Harriet di liberare dei serpenti velenosi perché mordano quelli che ritiene essere gli assassini di Robin, in base ad indizi più che fumosi, mezze frasi, falsi ricordi. Per quel che riguarda il seguito, quella che il Time (secondo la frase di copertina) ha definito “una grande storia di vendetta” si perde definitivamente in un caliginoso labirinto di parole e di noia. Ho fatto una gran fatica a finirlo, sperando che tutta quella “suspense” (ancora la presentazione in copertina) sfociasse in qualcosa, una fuga o una condanna. La frustrazione è stata totale: alla fine qualcuno muore, in effetti, ma non si ha nessuna certezza di colpevolezza, anzi. Tutto resta incerto, vago, come se l’autrice dopo grandi promesse si accontentasse di accompagnare il lettore fino ad un luogo che neppure lei conosce, lasciandolo poi a gironzolare senza motivo e senza meta.
Tuttavia nell’inefficacia generale brillano alcune piccole perle: tra tutte il quadro di una provincia sonnolenta, divisa tra lindi quartieri bene, dove convivono pacificamente vicine impiccione e reverendi affaristi, e luride baraccopoli che offrono rifugio a raffinerie di droga, minorati mentali e miserie umane di ogni tipo (e dove ovviamente Harriet cerca gli assassini del fratello).
È anche gustosa la descrizione della famiglia di Harriet, tutta al femminile, con donne di ogni età e carattere: l’inconsistente (e mentalmente labile) Allison, la madre Charlotte immersa nel lutto come nella colla, la ferrea Edie, la tenera Tat, la civettuola Libby; un gineceo interessante e vivace, le cui componenti occupano un ruolo all’interno della buona società -battista e bianca- della cittadina, decise a conservarlo (questo implica anche una venatura di razzismo neanche troppo latente nei confronti delle anziane domestiche nere Ida e Odean). Solo da questi personaggi -che ricordano l’atmosfera di The Help- sarebbe stato interessante estrapolare un romanzo a sé stante.
Ma queste finezze e la “bella” scrittura non bastano a far dimenticare l’inconsistenza e la debolezza della trama de Il Piccolo Amico, che avrebbe necessitato –credo- di tagli severi e di una revisione accurata soprattutto nel finale. Leggerlo è stato come vedermi servire preziosi ingredienti lessati in acqua insipida senza alcuna accortezza: nonostante la tavola elegantemente apparecchiata e il piatto di finissima porcellana, una delusione.