Vedete, il piccolo Jefe aveva ricevuto un dono dal cielo. Uno di quei doni che non ti fanno dubitare dell’esistenza di un buon Dispensatore, da qualche parte. Il piccolo Jefe era fornito di una memoria prodigiosa.
Dal giorno in cui era nato, non c’era qualcosa che non ricordasse. Sapeva descrivervi tutto: dai commenti della levatrice quando era uscito dal ventre materno, fino a ciò che aveva visto due minuti prima. La sua memoria era come un enorme pozzo che non si stipava come quella degli altri ma depositava e depositava, senza limite.
Gli si poteva chiedere «Ricordi, Jefe, cosa abbiamo fatto il 6 aprile di tre anni fa?» e lui sì, prontissimo, via con la giornata, dal risveglio al tramonto, le persone con cui aveva parlato, le cose che erano successe. Tanto che capitava spesso, in caso di dispute, che mandassero a chiamare lui, il piccolo Jefe, per dire se avesse visto il tale in tale luogo alla tale ora.
Aveva iniziato a parlare, perfettamente, all’età di tre anni. Prima pensavano fosse muto. No, era solo troppo impegnato a memorizzare per aggiungere anche le sue, di parole, al mondo. Poi una mattina aveva chiesto: «Posso avere una tazza di latte?» . Proprio così, dal nulla. Un mattino.
Allora girava per il paese con i suoi calzoncini, il basco sulle 23 e una giacca troppo grande, di suo fratello. Aveva una faccia strana, gli vedevi solo gli occhi enormi azzurri rotondi, e le orecchie, come farfalle poggiate sulle sue guance, in procinto di volare via. Quegli occhi vedevan tutto,e tutti lo sapevano, e lo temevano, forse, un po’.
Ma ancora nessuno indovinava, e tanto meno lui, il destino che gli si riservava. A sei anni però già sapeva ripetere tutta la messa in latino. A dieci, il Maestro gli aveva insegnato a leggere, e sapeva declamarvi tutti i libri che divorava, uno dopo l’altro, così, come gli altri si bevono una tazza di the. A quindici, i lombi riscaldati da una bella attrice di una compagnia di attori itineranti, scappò con loro. Li convinse recitando tutto il loro spettacolo a memoria. A sedici, un regista del teatro della capitale lo assunse. Non come attore (che non era portato) ma come portentoso suggeritore. Ben presto, la notizia delle straordinarie doti di Jefe si diffuse come una succulenta curiosità tra gli aristocratici della corte. Lo volle con sé il ministro delle Finanze, come un grande libro dei conti portatile. In poco tempo la città andò in delirio: tutti volevano Jefe. Gli avvocati per le loro cause, i banchieri per i loro conti, i mercanti per i loro inventari, le nobildonne per riportare le dolci parole degli amanti senza lettere compromettenti. Infine, la notizia giunse all’orecchio del re, che lo pretese per sé,. E, come sempre accade, lo ottenne. A soli 18 anni, Jefe divenne segretario personale del re, fu colmato di titoli e onori, e ne rimase l’ombra fedele fino alla morte, per poi accompagnarnee il figlio. Si sposò ed ebbe figli a sua volta, ma poca fortuna con le donne: come sopportare un marito che ricorda sempre tutto ciò che gli hai detto? Ormai nonagenario, un giorno, alla messa solenne, la sua memoria scoppiò. Iniziò a parlare e parlare, rivelando a caso dati segreti dialoghi episodi e nessuno riuscì a farlo tacere, nessuno, né ad interrogarlo, bisognava starlo ad ascoltare. La figlia lo rinchiuse in casa, dove fece fuggire i servi a forza di parlare. Nel timore che potesse rivelare qualche segreto di stato, il re dovette avvelenarlo. Dopo tanti anni di onorato servizio. Morì raccontando di quando il principe si era rotolato nel fieno con la giovane moglie dello zio, alla faccia dei pazzi che non san quel che dicono. Poi disse che avrebbe ricordato anche la morte, e smise di ricordare.
Valentina P.
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