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Il pifferaio magico

Da Fiaba


Sabato 14 Aprile 2012 11:01 Scritto da marco.ernst

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Questa è una favola quasi vera, perché perfino in una città asettica e a volte disattenta e crudele come Milano, a volte si può ambientare una fiaba se si ha ancora voglia di emozioni semplici e pulite, se si ha voglia di credere nelle cose ingenue, semplici e belle.

Come tutte le fiabe inizia con: “C’era una volta”...

C’era una volta un uomo anziano, ma non così anziano come si potrebbe pensare.

Era un uomo modesto, un pensionato che viveva con un sussidio da fame dopo una vita di lavoro per arricchire altri, ma era pulito, ordinato, sempre sbarbato e con un sogno ed un’arte nel cuore.

Lui suonava l’armonica e sapeva milioni di storie, forse tutte quelle più belle dell’universo.

C’era stato un tempo, il tempo e l’età in cui si sa, o si crede, di avere davanti a sé tutto il tempo necessario per fare qualsiasi cosa, nel quale avrebbe voluto pubblicarle, le sue storie, non tanto per sete di guadagno, ma per farle conoscere, perché a volte sia un sorriso che una lacrima sono capaci di rendere migliori.

Ben presto, però, si era accorto che pubblicare un libro è più che difficile, è quasi impossibile se non si hanno le conoscenze e gli appoggi giusti ed allora il libro l’aveva pubblicato da solo, sì, ma nella sua mente: lui le sue storie le ricordava tutte a memoria: gli bastava estrarre dalla tasca del cappotto, sempre lo stesso in tutte le stagioni, un foglietto oramai ridotto allo spessore di un pizzo pregiato, sul quale c’erano scritti tutti i titoli delle storie che lui aveva creato e il resto gli fluiva dalla voce con sicurezza, senza esitazioni e se qualche volta cambiava qualche parola, ciò serviva a migliorare e dare una rinfrescata ai racconti.

A volte questi erano malinconici, forse perché legati al ricordo di vicende personali e in una vita lunga come la sua, si sa, motivi di tristezza ce ne sono parecchi; altre volte si trattava di favole moderne, ma in tutti i casi c’era sempre, per chi sapeva coglierla, una morale, proprio come nei vecchi favolisti classici o, anche se il paragone gli sembrava irriverente, nelle parabole del Vangelo.

Il vecchio ogni giorno, estate e inverno, primavera ed autunno, che ci fosse il sole o la pioggia o la neve e la nebbia di Milano, andava al parco, si sedeva su una panchina, sempre la stessa (e chissà perché non c’era volta che la trovasse occupata) e si preparava: per prima cosa estraeva un enorme fazzoletto da una delle infinite e profondissime tasche del cappotto e con quello si puliva con cura gli occhiali, quasi che lui le parole che recitava le leggesse scritte nell’aria e, quindi, volesse averne ben chiara la visione.

Fatto ciò, estraeva da un’altra saccoccia un’armonica ed iniziava a suonare.

Le melodie ne fluivano dolcissime: a ognuno pareva di conoscerle da sempre, eppure erano composizioni personali del vecchio e ciò che alla gente pareva di riconoscere, non era la musica, ma i propri ricordi più belli (pare che ognuno ne abbia alcuni, anche se spesso preferisce piangersi addosso e fingere di non ricordarsene).

Quel giorno di marzo, era un giorno strano di un marzo ancora più strano: gli alberi tutto intorno erano fioriti di petali rosa o bianchi, ma sulla panchina preferita del vecchio si era addensata una nuvola bassa, a non più di una ventina di metri dal suolo, che scaricava fulmini in sordina e poi iniziò anche a nevicare.

All’arrivo del vecchio, però, la nube scomparve, la neve cessò, la panchina appariva asciutta e il sole tornò a splendere anche lì sopra; una leggera brezza mitigava il calore del sole, cosicché all’uomo il cappotto non desse fastidio.

Dopo avere iniziato a suonare l’armonica, la cui melodia si diffuse ben presto per l’intero parco, i bambini lasciarono palloni, tricicli o biciclette ed altri giochi ed accorsero verso di lui come ipnotizzati dalle sue note.

Come ebbe il suo pubblico l’uomo iniziò a leggere nella propria mente le sue storie, dopo aver consultato il suo malconcio indice per scegliere la più appropriata e i bambini si sedevano a terra, le gambine incrociate, i gomiti poggiati su queste e il mento sorretto dalle mani a coppa ed iniziarono ad ascoltare nel massimo silenzio e con la massima attenzione quelle storie meravigliose che, a volte, commuovevano, ma erano belle lo stesso.

Purtroppo, però, c’è chi è sordo nelle orecchie e chi lo è nel proprio cuore, così ci fu che pensò bene di chiamare i vigili e denunciare l’uomo perché, probabilmente, con la scusa della musica e delle sue storie, adescava i bambini.

Così arrivarono due “ghisa” in pompa magna e in evidente disagio che, pur non potendo fare a meno di commuoversi per la parte di storia che erano riusciti ad ascoltare, vietarono al vecchio di suonare e narrare per i bambini.

Tutti se ne andarono sconsolati e, questa volta, le lacrime dei bambini erano di disperazione, non di commozione.

Ben presto tutti dimenticarono il vecchio, la sua musica, quasi che fossero stati vittime di un’ipnosi collettiva.

Qualcuno si domandava perché mai, con tutte le panchine occupate, ce ne fosse una sempre libera sulla quale nessuno osava sedersi, ma nessuno ricordava.

Sta di fatto che i bambini che un tempo avevano costituito il pubblico del vecchio suonatore erano tutti diventati più buoni e non facevano più i capricci né per mangiare, né per andare a dormire e neppure per fare i compiti.

La panchina del vecchio musicista rimase, dunque, per sempre vuota, nel grande parco di Milano, ma un giorno l’uomo ricomparve in un parco più piccolo, praticamente un fazzoletto di verde stritolato dalle strade piene di traffico e di gente nervosa; qui giunto, scelse una panchina sulla quale aveva nevicato fino a poco prima, e si era al ventuno di maggio, ed estrasse dall’enorme tasca del cappotto, un’armonica piccolissima, che incominciò a suonare.

A quel suono gli automobilisti si calmarono e diventarono perfino gentili, pur non riuscendo a captare la flebile musica,

Neppure i pochi frequentatori del parco riuscivano a sentire alcun suono, ma quando passavano di là si sentivano bene, migliori e più ben disposti verso il loro prossimo.

Gli unici che potevano sentire le dolci note del minuscolo strumento erano gli uccelli: dapprima giunsero i passeri, poi gli storni, quindi i piccioni, le cornacchie, qualche falco e persino un pappagallo fuggito da una gabbia alle prime note dell’armonica.

I pennuti si misero a semicerchio intorno all’uomo e quando furono tanti, centinaia, il vecchio ripose l’armonica e cominciò a narrare.

Lui, ovviamente, non sapeva la lingua di tutte quelle specie di uccelli, ma loro lo capivano ugualmente ed erano tutti stretti gli uni agli altri, compresi i predatori.

Lui iniziò la storia che aveva scelto dal suo vecchio indice: “C’era una volta un vecchio pensionato che suonava l’armonica e raccontava storie ai bambini per renderli più buoni...”.

Aveva scelto proprio bene: era l’ultimo racconto che aveva creato e stampato nella sua mente: gli uccelli ascoltavano attenti, mentre i passanti pensavano che quel vecchio matto fosse uno di quelli che portano le briciole per i volatili, ma la cosa strana era che nessuno emetteva un verso, fosse pure un cinguettio o un pigolio e che gli animali erano immobili e non si accapigliavano come fanno di solito per la conquista di una crosticina di pane.

Il vecchio terminò la sua storia e qualche uccello accennò ad un applauso con le ali.

Qualcuno, molto attento, giura anche che alcuni di loro piangessero di commozione.

Quando tutti se ne andarono, rimase qualche penna per terra: una era del suonatore d’armonica, sì, perché non tutti gli angeli stanno in paradiso: qualcuno vive e lavora fra noi.



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