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Il Pil: tra truffa, fuffa, e idiozia.

Creato il 24 giugno 2014 da Lostilelibero

Sul Pil in quanto indicatore, non solo del sedicente benessere a cui qualcuno vorrebbe ricondurlo, ma anche come termometro dogmatico sullo stato di salute delle economie, se ne sono dette di tutti i colori. Eppure, i suoi tanti detrattori, spesso economisti correi di aver demandato al freddo ed asettico dato il compito di misurare i destini dell’umanità intera, non hanno mai voluto (per conservarsi nel proprio ruolo di economisti) vedere la demenziale astrazione economica per quello che è realmente: il tentativo di rinchiudere lo scindibile sotto la rassicurante protezione delle formule scientifiche, per rendere ogni cosa finalmente con-prensibile, univoca, fissa, controllabile, che non fa paura.A ben vedere, ciò che manifesta lo stesso tentativo che in questi giorni torna alla ribalta grazie ai nuovi metodi di misurazione del Pil (Sec 2010), introdotti da Eurostat. 


Secondo questo indice, infatti, tutti i paesi UE, Italia compresa, dovranno includere “una stima nei conti delle attività illegali, come traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando di alcol e sigarette” (il cambiamento delle carte in tavola, soffre perlomeno di alcune evidenti storture e diseguaglianze: Germania ed Olanda, paesi autenticamente “progressisti” e votati ad un’”onestà” dilagante – vedasi caso Siemens - ad esempio, in cui la prostituzione, essendo legale, rientra già nel computo del Pil, come accoglieranno queste nuove misure metodologiche, che sembrano fatte apposta per coloro che sono rimasti indietro rispetto al galoppante progresso da night club? Forse come premio alla loro fisiologica-calvinista volontà di normare ogni ambito dell’umano per porlo poi sotto il contingente controllo della legge?). Non serve, nella fattispecie, ricordare le ovvietà pronunciate da Robert Kennedy nel 1968 (“non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgomberare le autostrade dalle carneficine del fine settimana…”). Kennedy ha ragione, ma ha pure torto. Da un punto di vista meno ossequioso dell’astrazione economica, la necessità di trovare una funzionale ed alternativa unità di misura, sembra persino un finto problema (Kennedy e i “Kennedy allievi del mito”, pretendendo di trovare all’oggettività una nuova unità di misura che valuti l’invalutabile, manifestano un'ambigua coda di paglia. La volontà che desidera sostituire il logoro e vecchio "oggettivo" con un "oggettivo" nuovo, rinnovato, che funzioni come rimedio alla paura che qualcosa finisca per sfuggire al controllo della comprensione, conferma i bisogni di cui si nutre ogni volontà che intenda rendere misurabile ogni cosa: la paura verso ciò che non si lascia ab-purare.   Come le argomentazioni portate alla ribalta recentemente da Stiglitz e da Sen (“i problemi di traffico possono contribuire a far crescere il Pil perché aumenta il consumo di benzina. Ma ne risulta migliorata la qualità della vita?” – si chiede la commissione Stiglitz, palesando una banalità comune a molti Premi Nobel), sulla necessità di dotarsi di nuovi strumenti adeguati alla misurazione del benessere - poiché il vecchio Pil inventato da Kuznets nel 1937 per fornire un metro al New Deal di Roosevelt, non pare più assecondare tali esigenze -, manifesta di nuovo il bisogno di togliere alla vita il proprio soffio divenente, per porla sotto l’asfissiante e rassicurante controllo del dato, di quell’astrazione che razionalmente può sempre essere misurata, controllata, prevista. Per dirla con Severino: “la previsione, dunque dà senso al dolore e rende sopportabile l’angoscia”. Il problema, semmai si sentisse l’urgenza di disquisire ulteriormente sul nulla  assolutizzante, sarebbe casomai molto più astruso della sterile discussione sul “come” rendere la misurazione oggettiva del Pil aderente alla realtà percepita dal soggetto (esse est percipi, diceva qualche secolo fa l’inascoltato Berkley). Se vi fosse infatti un numero sterilizzato dall’oggettività, sul quale ridurre la vita soggettiva, fisica degli uomini, esso manifesterebbe, nella fattispecie, esclusivamente la cifra dell’autoreferenzialità metodologica (solo il metodo è per costoro giusto, unica garanzia “certa” sulla verità del ragionamento ipotetico. L’arché sostituisce il metodo, e l’osservazione fenomenica, come peraltro Einstein ed Heisenberg, benché in ritardo sul “poco scientifico” Nietzsche – “non esistono fatti, ma solo interpretazione di essi” –, diventano solo un pretesto per provare la bontà dell’astrazione metodica. Della serie: considero ”dato” solo ciò che non ne smentisce la veridicità. L’autoreferenzialità eretta a tautologia scientista. Porre un’ipotesi e poi far concorrere ogni sforzo deduttivo al raggiungimento di tale meta finale, sembra la premessa fondante ogni “neutrale” ricerca dell’evidenza, della “verità ultima”. Che infatti ogni presunto principio genealogico sia un nihil autoreferenziale, che vuole fondare una verità assoluta esclusivamente sull’aderenza al modello che si è voluto creare ad hoc per rallegrarsi poi della “correttezza” dell’ipotesi, ce lo comunica mirabilmente Musil ne I turbamenti del giovane Törless: “una maglia tiene su l’altra, sicché l’insieme appare naturalissimo. Ma nessuno sa dove stia la prima maglia che regge tutto quanto”. Il Pil è quindi, per citare Fantozzi, “una cagata pazzesca”. Eppure noi, con la stessa stupidità che contraddistingue il meccanismo economico, assieme a tutta la risma di sigle che ormai, sole, hanno il compito di dare un senso alla nostra altrettanto stupida esistenza, gli abbiamo attribuito un valore tale da lasciargli decidere il destino delle nostre vite. In un mondo moderno fatto di uomini che si lasciano attraversare da ogni cosa come tubi digerenti, anche quel che sarebbe da scartare diventa nutrimento vitale.

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