Il più grande chitarrista del mondo

Creato il 17 giugno 2014 da Scribacchina

Il più grande chitarrista del mondo non è Pat Metheny.
Non è neppure Ritchie Blackmore, o John Scofield, o Steve Vai, o Paco de Lucía.

Il più grande chitarrista del mondo si trova nei miei ricordi.
Lo chiamerò D.

Era il periodo della guerra in Jugoslavia, inizio anni Novanta.
Lo ricordate anche voi, no?
I telegiornali erano fitti di servizi, di breaking news, di immagini forti.
Si parlava di due sole cose: bombe e violenza.
D. era un profugo come molti altri, un fuggitivo; si lasciava alle spalle Sarajevo e una storia della quale ho dimenticato tanti piccoli particolari.
Era uno di quei personaggi incredibili, insospettabili: chitarrista di una delle band di punta nel suo paese.
Raccontava di concerti nelle grandi arene, di migliaia di persone in delirio, di studi di registrazione e di Les Paul. Di musica.
Raccontava anche quello che succedeva nella sua Sarajevo. Raccontava la guerra dal punto di vista di chi ha visto piovere bombe sulla propria testa. Lo raccontava come fosse la cosa più naturale del mondo, mentre mia mamma lo ascoltava e annuiva, con gli occhi velati di lacrime. Credo pensasse alla stranezza della vita: vivere l’incubo della guerra da bambina e ritrovarsi, quarant’anni dopo, ad ascoltare un ragazzo che potrebbe essere suo figlio descrivere gli stessi orrori, le stesse paure. In gran parte – forse – rimosse.

D. parlava male la nostra lingua, era arrivato in Italia da pochissimo. Per metà era americano, aveva un inglese perfetto. E mi prendeva in giro perché – così diceva – il mio inglese aveva un terribile accento bergamasco.
Nessuno me l’aveva mai detto; ci rimasi malissimo.

Ricordo il suo stupore per le piccole cose che formavano il nostro concetto di «normale».
Per la pace che c’era qui da noi, nella terra di tangentopoli.
Per il sole.
Per le nuvole nel cielo, per il sereno verde dei prati.
Per ogni cosa.
Le targhe delle automobili: la sua sorpresa nel vedere che anche qui in Italia avevamo macchine targate BG.
«BG, Belgrado! This is crazy!»
Gli insegnammo che BG, in Italia, significa Bergamo.

Poi, un giorno, mio fratello gli fece vedere la sua chitarra: era una Kramer modello Eddie Van Halen, bianca e nera. L’aveva parecchio modificata negli anni; senza volerlo (e senza rendersene conto), ne aveva fatto qualcosa di abominevole.
D. la prese in mano, senza fare troppe domande, e iniziò a suonare.
Eravamo in quattro ad ascoltarlo. Tutti a bocca aperta, tutti senza parole.
Aveva la musica che gli usciva dalle dita.
Mi resi conto che avremmo potuto dare in mano a D. un manico di scopa con attaccate sei corde: quello che ne avrebbe tirato fuori sarebbe stato un capolavoro, a prescindere.

Era il periodo d’oro del grunge.
I Nirvana erano all’apice della loro carriera; io li snobbavo di proposito: non mi piaceva ascoltare la musica imposta, quella che andava di moda. Ripresi in mano i Nirvana anni dopo, ma in quel momento li evitavo come la peste.
Quando il telegiornale dette la notizia della morte di Kurt Cobain, D. restò come fulminato. Disse: «Devo mandare un telegramma, ora» – non c’erano le e-mail all’epoca, e neppure gli smartphone.
Scoprimmo così che D. era parente di uno dei sopravvissuti Nirvana.

D. uscì dalla mia vita pochi mesi dopo, così come era entrato: in punta di piedi, silenzioso. Con il sorriso triste e il blues negli occhi.
Non lo vidi più.

Ogni tanto, mia mamma chiedeva che fine avesse fatto quel ragazzo che veniva dalla guerra, quello con l’accento americano.
Oggi, nel 2014, me lo sono chiesto anch’io.

Sembra che D. suoni ancora la sua chitarra.
Credo faccia la vita che ha sempre voluto fare: un giorno qui, domani chissà.
Ha ancora stampato in viso il sorriso triste di quando ci raccontava della guerra.


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