Il ponte delle spie di Spielberg è uno dei film più importanti del 2015, denso di cinema, moralità e senso civile in un’epoca, la nostra, in cui non ne respiriamo mai abbastanza.
“Ogni uomo è importante”. È con questa frase che il personaggio dell’avvocato James B. Donovan indossa i panni del nuovo Schindler, perfettamente a suo agio, attuale e necessario oggi come nel 1957 in cui si svolge la vicenda. E per impersonarlo Steven Spielberg si affida ad uno dei suoi attori prediletti, Tom Hanks, con cui ha già girato, tra gli altri, Prova a prendermi (2002), The Terminal (2004), Salvate il soldato Ryan (1998). Tom Hanks, non bello, non attraente, ma attore di classe sopraffina , magnetico, capace di bucare lo schermo senza smorfie, ma solo tanta emozione, scena dopo scena, come un James Stewart degli anni Duemila.
Il ponte delle spie è un film perfettamente centrato su se stesso, con il baricentro basso ma lo sguardo alto, assolutamente cosciente di quanto sia attuale, nel 2015, non solo la mai finita Guerra Fredda, ma anche (tornare a) parlare di temi che sono patrimonio dell’umanità, come il fatto che, parole di Donovan, “ogni uomo merita una difesa”.
Il ponte delle spie, ispirato a fatti realmente accaduti, è un film profondamente americano, di quella morale intimamente americana che è però proprietà di tutti, condivisa da tutti. Un film classico, dove lo spettatore non viene distratto da nessun vezzo, interamente proiettato com’è al centro della storia e della Storia. Una chiarezza e una limpidezza che ricordano i grandi film degli anni Trenta e Quaranta. Un film dove tutto è (ri)cucito con arte, maestria, senza lasciare spilli per strada. Un film stoico, testardo, “tutto d’un pezzo” come direbbe la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance), il film giusto nell’epoca storica giusta (la nostra).
Il ponte delle spie è un’opera asciutta, che scorre senza intoppi né strappi registici, col fine di catturare totalmente lo spettatore affinché i temi che lo compongono (il diritto alla difesa, alla libertà, alla giustizia per ognuno) possano arrivare integri, forti e chiari al pubblico.
Il ponte delle spie è un grande film, pregno dell’intensità di Schindler’s List (che ci torna con forza alla mente nelle scene ambientate nella Berlino Est) ma sfrondato del patriottismo di Salvate il soldato Ryan. Non c’è un inseguimento, non c’è (o quasi) un colpo di pistola. In questo ricorda il rigore de La spia di Anton Corbijn. È un film che vive di parole, di dialogo e dialoghi, di telefoni all’orecchio e conversazioni faccia a faccia. Il ponte delle spie è una sorta di grande partita a scacchi, un film di grande intelligenza, mai noioso né borioso. Non un film che si parla addosso, ma di quelli che parlano allo spettatore.
Spielberg, dopo un paio di film non proprio usciti a puntino, War Horse (2011) e Lincoln (2012), ritrova lo splendore dei favolosi anni Novanta e tira fuori dal cilindro un’opera preziosa, che sa interessare profondamente lo studente di giurisprudenza come il dottorando in scienze politiche come il più comune degli spettatori, desideroso di vedere un gran bel film. Ecco, si esce di sala riconciliati col cinema, coi polmoni e la mente pieni di qualcosa che lascia il segno e fa tornare a casa con un po’ di cultura e senso di civiltà in più.
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