Vi pare possibile scrivere un romanzo di quattrocento pagine su un ponte (non nel senso di scriverlo stando sopra un ponte, ma avente come soggetto un ponte)?
Beh, è possibile se vi chiamate Ivo Andrić, se siete stati premio nobel per la letteratura nel 1961 e se il ponte è quello sulla Drina, vicino alla cittadina bosniaca di Visegrad.
Reminiscenza liceale, quando un professore di italiano ce ne consigliò la lettura, me lo sono acquistato qualche mese fa e ho approfittato della mia convalescenza forzata per leggerlo.
Che dire? Si tratta di un grande romanzo corale, che copre quattro secoli di vita di una comunità e del suo ponte, che rappresenta la continuità della vita e della storia.
Ma andiamo con ordine.
Visegrad è una cittadina bosniaca, vicina al confine sud occidentale della Serbia. Il fiume Drina separava la città dal suo sobborgo, situato sull’altra riva e poteva essere attraversato soltanto con una chiatta. Il visegradese ha uno “smoderato amore verso le donne, inclinazione al bere, alle canzoni, al vagabondaggio o allo starsene senza far niente, sognando accanto al natio fiume” (un po’ come i romani, insomma…).
Terre occupate per secoli dai turchi dell’impero ottomano, che alle popolazioni non musulmane chiedevano un pegno in sangue: un certo numero di bambini cristiani erano prelevati dalle loro famiglie e portati a Istanbul, circoncisi, turcizzati e destinati a trascorrere la loro vita nelle fila dell’esercito o in qualche altro servizio imperiale.
Ma uno di questi ragazzi divenne un valoroso dignitario della corte del sultano, quindi genero dell’imperatore, condottiero e statista di fama mondiale: Mehmed Pascià Sokoli, che, memore della sue origini, decise di costruire il ponte sul fiume Drina, per ordine e spese del visir.
Così iniziano i lavori, condotti in maniera arrogante dal funzionario Abidaga. Egli costringe a lavorare i contadini del posto strappandoli dai lavori nelle loro terre, senza pagarli e ovviamente iniziano le proteste, che sfociano in veri e propri atti di sabotaggio. Abidaga reagisce duramente e quando cattura un contadino intento di notte a sabotare i lavori, lo fa prima torturare e poi impalare vivo, e “un terrore indescrivibile s’impossessò dei cittadini e degli operai”.
Ma ahimè, il diavolo fa le pentole ma non gli spezzatini, e dopo tre anni di lavori forzati qualcuno pensò bene di avvertire il visir che Abidaga faceva lavorare la gente gratis, tenendo per sé i soldi destinati al vitto e al salario degli operai (mica l’abbiamo inventata noi mafia capitale…). Allora il fetentone viene sostituito dall’architetto Arifbeg, uomo onesto che porta a termine i lavori, con tanto di balli, festa e entusiasmo finale della popolazione (vorrei trovare un paragone in qualche politico attuale, ma non mi viene…).
Undici arcate di diversa grandezza, con una grande balconata centrale (“la porta”) dove ci si può incontrare, sedersi a discutere, amoreggiare, fumare, festeggiare.
E così si dipana la storia della gente di Visegrad e del suo ponte. Ovviamente la cittadina si sviluppa in traffici e commerci; accanto al ponte sorgono l’albergo, la locanda; in città nascono negozi. Il ponte è l’unico collegamento sicuro con la Serbia.
Ma la storia, quella con la esse maiuscola, si compone di tante storie, quella con la esse minuscola. Le storie delle persone, dei loro amori, dei loro affari, delle loro vicissitudini; le storie delle comunità turca musulmana, serba cristiana ed ebrea; le storie che fanno parte e vengono travolte dagli avvenimenti più grandi di loro: le rivolte, le guerre.
Ed ecco che verso la fine dell’ottocento i turchi si ritirano e arrivano gli austriaci.“Gli austriaci che entravano temevano le imboscate. I turchi avevano paura degli austriaci, i serbi degli austriaci e dei turchi. Gli ebrei avevano paura di tutto e di tutti.”
La vita dei visegradesi cambia, sotto l’amministrazione della nuova potenza. Servizio di leva obbligatorio, censimento, costruzione di acquedotto e ferrovia e consumismo stravolgono la vita degli abitanti.
“Ovunque i grammofoni raspano e stridono marce turche, canzoni patriottiche serbe oppure arie di operette viennesi, secondo gli avventori per i quali suonano. Infatti, dove non c’è rumore, splendore e movimento, la gente non va e non spende.”
La Serbia rimane inquieta e poco dopo iniziano ad arrivare anche qui le idee nazionaliste e socialiste che si sono diffuse in Europa.
E arriva l’autunno del 1912 e poi il 1913, con le guerre balcaniche e le vittorie dei serbi. La frontiera turca arretra improvvisamente di oltre mille chilometri e la geografia europea cambia, così come viene scossa dalle fondamenta anche la vita della cittadina.
E infine arriva il 1914, l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie a Sarajevo e, ovviamente, le persecuzioni dei serbi, ovunque si trovino. Si diffondono il senso di pericolo e di odio e “gli uomini si divisero in cacciati e cacciatori”, con tanto di evacuazioni e impiccagioni.
E qui si interrompe il racconto, quando le artiglierie serbe e quelle austriache, nel loro cannoneggiamento quotidiano, prendono di mira anche il ponte, abbattendone uno dei pilastri, “terribilmente, malignamente spezzato nel mezzo”.
E Andrić ci racconta la scena con gli occhi e con il cuore del vecchio imano, per il quale è crollato tutto un mondo.
“Se Dio ha tolto la sua mano da questa sventurata cittadina sulla Drina, l’ha tolta forse anche da tutto il mondo e da tutta la terra che si trova sotto il cielo?”
Immerso in tali pensieri, l’mano avanza sempre più faticosamente e lentamente, finché stramazza a terra, agonizzando.
Che dire? Nobel meritato.
Ma le avventure di questa terra straziata non sono certamente finite con la prima guerra mondiale. Ben altre violenze avrebbe dovuto conoscere negli anni novanta, durante la guerra civile jugoslava. Ma questa è ormai storia dei giorni nostri.