A quanto pare saremo noi quelli “congelati sulla linea del bagnasciuga”, anzi non ci faranno nemmeno arrivare alla Battigia, a meno che non ci assoggettiamo a pagare profumatamente e ancora per 30 il godimento di un bene comune, che ben prima dell’egemonia dei profeti dell’esproprio a fini privati, ci era stato sottratto.
Si perché l’unica lobby intemerata, soggetta per questo a garbate bacchettate più promesse che inflitte, resta quella dei tassisti. Salve invece le professioni, salve le gang criminali degli evasori, ché Sallusti è solo evaso, salvi supermercati e grandi studi professionali, salvi i benzinai. E salvi i concessionari delle spiagge. Un emendamento presentato in Senato dai relatori di maggioranza Filippo Bubbico (Pd) e Simona Vicari (Pdl) al decreto legge sulla “crescita”, riesce in un colpo solo a smentire gli annunci del dicastero Monti, a contraddire i suoi instabili capisaldi e infine a mettere d’accordo i partiti diversamente al governo, ugualmente e festosamente condiscendenti davanti ai più parassitari detentori di rendite di posizioni: : fotografa lo status quo delle concessioni balneari così come sono per i prossimi trent’anni, sigilla un settore ancora profittevole agli investimenti, ostacolando la concorrenza, se ne infischia che l’Europa ci chieda di attuare quella direttiva Bolkestein, tanto ammirata dall’allora Commissario europeo anti-trust, offrendoci la concreta possibilità di pagare sanzioni onerose per le nostre proterve infrazioni seriali.
Tutti i volonterosi fan delle liberalizzazioni come toccasana di ogni male e squisito, doveroso omaggio alla modernità globale, quelli che da tutte le tribune tuonano contro ragazzini viziati, mamme castranti, famiglie misoneiste, si sono profusi incondizionatamente per tutelare uno dei settori più manifestamente familistico, di quelli per i quali non occorre nemmeno laurearsi in chimica o passare l’esame di notai, e per proteggere l’eredità, fino a oggi rinnovabile di sei anni in sei anni, automaticamente, basta una buona crema abbronzante con un Spf alto.
La direttiva Bolkestein è un dispositivo europeo promosso per dischiudere sia pure cautamente il settore dei servizi a nuovi soggetti non ancora presenti nel mercato. E infatti la prima procedura d’ infrazione che aveva accolto l’ex commissario alla concorrenza al suo insediamento a Palazzo Chigi, ammoniva l’Italia e la richiamava al rispetto della direttiva proprio per spezzare il regime di monopolio degli ombrelloni, imponendo di mettere a bando le concessioni demaniali alla loro scadenza. Insomma l’Europea che lo chiedeva e i ministri competenti, Affari Regionali e Politiche Comunitarie avevano dovuto proporre una prudente apertura alla concorrenza, mica una liberalizzazione vera, per carità, un modesto spiraglio, che ha sollevato la sdegnata reazione dei partiti rivieraschi, costieri e litoranei che hanno subito aperto, loro, un bell’ombrellone per riparare un bacino elettorale influente.
Ma si sa, l’Europa per i suoi interessati ammiratori è come la Costituzione, si può girare e rivoltare a proprio piacimento, chiamarla in causa per tradirla. E dire che l’Europa è piena di esempi di gestione sostenibile e democratica di questo particolare bene comune, detenuto impropriamente e illegittimamente da concessionari e proprietari pronti a difendere l’esclusiva con polizie private, guardianie e soprusi. In Francia la Conservatorie du Littoral dal 1975 garantisce la conservazione di oltre 1.200 km di coste con la collaborazione e la responsabilità condivisa la risposta positiva di amministrazioni locali e imprenditori privati. Le coste spagnole e portoghesi, dopo anni di spregiudicata cementificazione e occupazione privata del demanio, sono diventate un laboratorio sperimentale di tutela e godimento del bene comune da parte delle comunità locali. E da noi una parte della Sardegna che ancora resiste all’arrivo degli sceicchi e dei visir, ha adottato misure di tutela coerenti con un turismo e un uso consapevoli sostenibili delle risorse, che l’alternativa non è necessariamente la decrescita o il congelamento museale dei luoghi.
Quello che è successo conferma che la difesa dei beni comuni non si può proprio delegare ai partiti, che quello è il “bagnasciuga” sul qual bisogna fermare la tracotanza delle privatizzazioni, perché quello è il fronte sul quale si deve coagulare quella società civile, quella che non deve accontentarsi di un voto estemporaneo, occasionale, di quell’una tantum sostitutivo della pratica democratica, che deve invece esercitare una sorveglianza e una custodia attiva dell’interesse generale.
Dovremmo invitare noi stessi a innamorarci pazzamente di quella che qualcuno ha definito la “ragionevole follia dei beni comuni”. Come abbiamo fatto con il referendum sull´acqua come “bene comune”, un risveglio che ha aperto le porte alla consapevolezza che siamo padroni di un mondo, nostro e inalienabile: acqua, conoscenza, Rai, Valle occupato, fino a dire che anche “I poeti sono un bene comune”. Ma deve essere un bene comune soprattutto il lavoro, la sua dignità che è quella della fatica del lavoratore e non del profitto del padrone, come devono esserlo la salute e le garanzie, ridotte a elargizione cui è ragionevole rinunciare in cambio dell’unico diritto rimasto, quello di tenersi stretto il posto, il salario, a costo di compromessi e privazioni, anche morali. In fondo i poveri sono matti.