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IL PRESENTE ED IL FUTURO di R. D.

Creato il 29 agosto 2013 da Conflittiestrategie

La strategia obamiana mostra come non mai la corda. Ci si domanda a volte, nel nostro
piccolo, come si possano non vedere gli autentici iceberg che si profilano all’orizzonte di operazioni
strategiche tanto pretenziosamente evolute ed importanti. E’ stato così nell’avventura irachena, lo è
oggi, in misura forse maggiore, nella farsa tragica della cosiddetta “Primavera Araba”.
Nel contesto iracheno, o anche in quello afgano, gli S.U. hanno almeno ottenuto il vantaggio
strategico, tuttora decisivo, di una presenza militare massiccia ed in pieno assetto bellico, in una
delle aree geopolitiche più importanti del pianeta. Quello che non poteva reggere, né reggerà
probabilmente nel lungo periodo, è appunto il massiccio dispiegamento di forze militari
direttamente americane, in un contesto di guerra permanente, dove i nemici, si rinforzano quanto
più è forte l’impatto che si intende esercitare contro di loro.
La strategia obamiana era nata proprio quale alternativa a questo insostenibile dispendio di
energie. Consisteva in una falsa bonomia accompagnata da processi di penetrazione e
destabilizzazione a vari livelli, delle aree interessate. In molti ricorderanno il premio nobel per la
pace attribuito al primo Obama, per motivazioni del tutto inconsistenti. Quello era il segnale di
un’operazione in grande stile, che non poteva né voleva tener fuori alleati e vassalli.
L’operazione in grandi linee si divideva in due direttrici fondamentali: A) Destabilizzazione
“preventiva” dell’area araba mediorientale; B) Destabilizzazione finanziaria dell’area dell’Euro.
A sua volta, la direttrice A, era suddivisa in due fasi concomitanti: a) Guerra civile in Libia
prima e Siria poi; b) Rovesciamento “pacifico” dei regimi tunisino ed egiziano. Il tutto condito con
la solita cortina fumogena ideologica delle “Rivoluzioni Arancioni” democratiche, in lotta contro
bieche e corrotte dittature. Fingendo di dimenticare però, il piccolo dettaglio che questa volta le
dittature erano del tutto filo occidentali. In realtà, almeno nelle intenzioni, il discrimine era proprio
questo: dove c’erano i già filo americani, semplice “Primavera”, dove invece dominavano gli anti
americani, o anche semplicemente ormai, i non proprio sottomessi, guerra di annientamento. Questo
è il destino toccato alla Libia.
Vale appena la pena di notare che contro la Libia è stata scatenata una vera e propria guerra
di aggressione non dichiarata contro una nazione sovrana, sotto l’egida della NATO. Vale a dire,
sotto comando americano, ma con partecipazione diretta dei servi inglesi, francesi ed italiani. Questi
ultimi intervenuti rinnegando con il solito vigliacchismo nazionale, interessi e legami, bipartisan,
con il regime di Gheddafi. Fu interessante in questo frangente il deciso rifiuto tedesco alla
compartecipazione in questo teatrino buffonesco e tragico. A dimostrazione dell’eterna validità della
proposizione di Don Abbondio: “Se uno (un popolo) il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.
Tranne nobilissime, ma assolutamente minoritarie eccezioni, il popolo tedesco e quello italiano
sono fatti di paste completamente diverse. Così pure i loro governi e la rispettiva visone degli
interessi nazionali. I tedeschi vedevano bene che un così pesante intervento nell’area mediterranea
era in realtà precursore di un rinnovato, invasivo intervento sui già precari equilibri europei ed in
particolare su una certa eccessiva “autonomia di orizzonte”, molto guardinga e prudente per la
verità, proprio loro ed in parte nostra, nei confronti della rinascente potenza russa.
Difatti, la ragione fondamentale di questo, per molti aspetti incredibile, rimescolamento di
carte, era il contrasto preventivo all’evidente processo di penetrazione russo nell’area del
Mediterraneo, accompagnato da un altrettanto preoccupante movimento cinese, assai meno visibile,
ma non per questo meno pervasivo e potenzialmente pericoloso. Il passo successivo e decisivo era
quindi l’attacco alla Siria. Il rovesciamento egiziano apriva la strada, come poi si è visto, ad una
possibile espansione islamista, non certo filo americana. Vero che gli USA potevano contare sulla
fedeltà dell’esercito (egiziano), ma il rischio era comunque forte, salvo appunto che si fosse
proceduto in Siria rapidamente come in Libia. Del resto nel caso libico, i russi, come pure i cinesi,
erano stati sostanzialmente a guardare e nulla, sul momento, poteva far pensare ad una loro già
precisa e decisa strategia di impegno diretto. Il calcolo si è dimostrato del tutto errato. Il regime di
Assad si è rivelato un osso durissimo. La Russia lo ha sostenuto via via con sempre maggior
decisone. La penetrazione islamica è divenuta sempre più massiccia ed incontrollabile. L’ipotesi di
un intervento diretto, garanzia imprescindibile di successo di tutta l’operazione è stata debellata
dalla chiara disponibilità russa a fare altrettanto. Il risultato è stato un impantanamento che ha
bloccato di fatto la stabilizzazione della “Primavera araba”. Il paese – cardine, l’Egitto è finito nelle
mani degli islamisti e si è dovuto ricorrere ad un colpo di stato che si sta rivelando ogni giorno più
sanguinoso e cruento e nello stesso tempo la presenza e l’affidabilità russe sono cresciute
enormemente. Lo stesso Iran che sembrava essere pienamente nel mirino americano, sembra
passato in seconda linea rispetto a queste inaspettate difficoltà. Ma erano davvero così
imprevedibili?
In realtà anche per chi come me ha pochissime informazioni attendibili su ciò che accade, è
apparso chiaro fin da subito che la strategia obamiana si stesse basando su di una serie di giocate
d’azzardo, con altissimi rischi di intralci o addirittura di fallimento.
E’ possibile che i “think tank” americani non se ne siano resi conto? Io non credo. Mi pare
assai più probabile che una serie di mosse siano state in un certo senso obbligate. Il punto è, a mio
parere, che non sono state obbligate tanto dalla situazione internazionale, o per così dire “esterna”,
quanto piuttosto da una situazione “interna”, caratterizzata da logoranti “frizioni” tra i più forti
gruppi di potere statunitensi, circa la conduzione strategica dei prossimi dieci o vent’anni. Gli S.U.,
negli ultimi 40 anni, hanno poggiato la loro strategia, risultata vincente, su quella vera e propria
“mossa del cavallo” escogitata dal duo Kissinger – Nixon, con la famosa “Diplomazia del ping
pong” all’inizio degli anni ’70. Vale a dire, sul sistematico sfruttamento della storica inimicizia tra
Russia e Cina. Questo “gioco”, ha fruttato, a partire dalla fine dei ’70, un vantaggio costante da
parte americana, soprattutto nei confronti dei russi, che al di là di tutti gli sproloqui giornalistico –
cinematografici sulla minaccia cinese, sono sempre stati ritenuti come gli unici veri avversari di
livello. A partire dalla seconda Guerra del Golfo, questo caposaldo ha cominciato rapidamente a
sgretolarsi. Grazie soprattutto alla ritrovata agilità diplomatica russa, scomparsa sin dai tempi della
Guerra Fredda, i rapporti tra Russia e Cina si sono fatti molto più ravvicinati e strategici, al punto
che, pur in assenza di una vera e propria alleanza, ora sono spesso gli americani a trovarsi
triangolati. Vedi appunto il caso della Siria, come quello dell’Iran o della stessa politica statunitense
nell’ex giardino di casa sudamericano.
Senza questo caposaldo della loro politica estera, gli americani si ritrovano ora in mare
aperto. Le scelte si fanno incerte e contrastanti. Occorre guardarsi tanto dai nemici, quanto dai
cosiddetti amici. Il caso della “talpa” della CIA, che rivela lo spionaggio di paesi “alleati” e che
finisce per trovare asilo, guarda caso, proprio in Russia, è piuttosto emblematico; sia per quanto
riguarda la natura e l’estensione del controllo, sia per il fatto che un segreto di simile portata sia
stato così facilmente smascherato.
Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza del mondo, ma non sono più saldi in sella. Essi
hanno tuttora un vantaggio fondamentale: sono gli effettivi padroni dello sviluppo tecnologico. A
partire dagli anni ’80, gli USA hanno stabilito ed imposto su scala planetaria il primato della ricerca
e dello sviluppo tecnologico su qualunque altra forma di progresso scientifico. In effetti nessuno è
davvero a conoscenza di quale sia l’effettivo livello di tale sviluppo. Tutti siamo portati a misurare il
progresso tecnologico sulla base dei prodotti che troviamo disponibili sul mercato, immaginando
un’interazione per così dire “naturale” tra scoperta o potenzialità tecnologica e sua immediata
traduzione in oggetto di commercio. Ma in realtà di ciò non abbiamo nessuna prova. Esiste invece
la concreta possibilità che le scelte commerciali intorno allo sviluppo del potenziale tecnologico
oggi disponibile siano accuratamente selezionate, tanto per strategie strettamente di mercato, quanto
per priorità più segnatamente di gestione politica.
Questo primato è decisivo e permette ancora agli USA di proiettarsi nel futuro come la più
probabile delle potenze dominanti del futuro. Tuttavia esso non è più sufficiente ad assicurarle un
primato assoluto e costante. Ciò fondamentalmente per due motivi consequenziali: il primo è che il
primato tecnologico non permette comunque agli Stati Uniti, un controllo di aree geopolitiche
decisive come Russia e Cina, guarda caso i due più grossi rivali. Il secondo è dovuto proprio alla
coesistenza del primato tecnologico e quindi di potenza (spesso di prepotenza), con l’impossibilità
ad estendere completamente la propria capacità di controllo anche ai propri maggiori rivali. Ovvio
che essi siano portati ad un livello di accordo, se non di vera e propria alleanza, che li metta in
grado di affrontare il nemico di gran lunga più pericoloso. Altrettanto logico che dietro di essi, altre
potenze “minori” cerchino di trovare il loro spazio.
Ecco dunque il nocciolo del problema per gli S.U.: la loro stessa forza, da un lato non
garantisce più un pieno controllo sugli avversari, dall’altro è sufficientemente grande ed estesa da
indurre questi ultimi a forme di cooperazione capace di superare anche storiche rivalità.
Queste rivalità molto probabilmente affioreranno di nuovo, ma non prima di un effettivo
ridimensionamento della potenza statunitense.
Quale potrebbe essere la forma di questo ridimensionamento, laddove dovesse realizzarsi
concretamente? E’ sempre possibile il ricorso a quella che io definisco “la Strategia del Pizzino”. La
mafia, che è per sua natura, organizzazione dominante, cioè a dire autonoma, seppure relativamente,
rispetto ad altri dominanti, ha trovato il modo di ovviare al suo gap tecnologico – informativo, con
l’uso massiccio di percorsi per la trasmissione di ordini ed indicazioni anche strategicamente
importanti, non comportanti l’uso di mezzi elettronici. Proprio nella consapevolezza della loro
vulnerabilità e controllabilità. La stessa procedura è stata segnalata da alcuni media riguardo ai
servizi di sicurezza russi. In altre parole, è possibile una serie di “ritorni al passato” nei confronti di
modalità tecniche considerate obsolete, ma molto meno insicure e penetrabili di quelle attuali, tutte
appunto, di matrice americana. Un ritorno ovviamente non pienamente sostitutivo, ma diciamo così,
integrativo. La cosa non deve stupire troppo, se si pensa che l’economia cinese è decollata proprio
attraverso l’uso massiccio di basse tecnologie e di manodopera a bassissimo costo.
Una modalità quindi possibile, ma più che probabilmente, assolutamente non sufficiente a
porre seriamente in pericolo la leadership statunitense. La più realistica possibilità di
ridimensionamento della potenza americana resta quella della perdita del primato nell’innovazione
tecnologica e tecnico – militare. Attualmente nessun singolo paese è in grado, da solo, di produrre
un simile risultato. Tuttavia, se esperienze di ricerca, capacità e potenziali produttivi di diversi
paesi, dovessero trovare forme di sinergia, questa potenzialità potrebbe divenire realistica. Anche
per questo gli Stati Uniti hanno bisogno di una “Strategia del Caos” che metta costantemente tutti
contro tutti.
E’ inevitabile che questo intreccio di difficoltà, si traduca in una situazione sostanziale di
stallo. Da un lato la più grande potenza industrial – militare che la storia ricordi, dall’altro potenze
in crescita che già hanno eroso ampi margini alla prima, ma che ancora non sono in grado di
contrastarla apertamente. Tuttavia, lo stallo in politica differisce da quello scacchistico per una
decisivo particolare: non è ammesso il pareggio. Si può convivere per un periodo più o meno
prolungato, in una fase di precario equilibrio, ma primo o poi giunge il momento della resa dei
conti. La quale resa dei conti è pressoché da sempre, tragicamente segnata dall’esplodere di una
guerra, o da una serie di guerre tanto più estese quanto più generalizzati e coinvolgenti sono gli
interessi in gioco. Assai spesso, ad anticipare questa più ampia deflagrazione , concorrono una serie
di scontri minori, su teatri “periferici”, dove le rispettive forze si confrontano e misurano se stesse.
E’ questo appunto, il caso del conflitto siriano.
A differenza della guerra in Iraq o in Afganistan ed anche di quella lampo in Libia, la guerra
“civile” siriana vede schierate in campo almeno due delle maggiori potenze: gli USA e la Russia.
Lo scontro in realtà non è limitato solo a questi due contendenti ed ha implicazioni estremamente
più ampie. Tuttavia, ciò che va segnalato principalmente è che si tratta del primo teatro bellico di
questo genere dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Non solo, ma mentre ai tempi della
Guerra Fredda, quei modelli di confronto, piuttosto frequenti, erano una sorta di “camera di
compensazione” del conflitto maggiore, non esplicabile, si diceva, per “ragioni nucleari”, questo
siriano si pone come banco di prova concreto di tenuta politico – militare e di leadership interna tra
i rispettivi contendenti.
Secondo il mio canone di interpretazione, trovo il ventilato intervento anglo – americano in
Siria, assolutamente impossibile ed insensato. Solo una dirigenza completamente allo sbando ed
incapace di intravedere una qualsiasi soluzione alla propria impasse potrebbe avere la follia di
infilarsi in un contesto come quello che si aprirebbe in caso di intervento armato. I fatti potrebbero
incaricarsi di smentirmi. Negli ultimi anni i gruppi dominanti americani hanno ben dimostrato il
loro scadente acume strategico. Un ulteriore passo falso potrebbe non stupire, ma in questo caso
avrebbe conseguenze incalcolabili. Per cui, oltre che a non prevederlo razionalmente, mi auguro
caldamente che in concreto, l’azione militare non ci sia. Credo che l’esposizione mediatica di questi
giorni circa un possibile intervento militare, sia piuttosto indirizzato al conseguimento di un
margine di trattativa che impedisca, o quantomeno ammorbidisca il successo della fazione filo russa
di Assad. Un conflitto interno come quello egiziano ad esempio, difficilmente potrebbe essere
sanato di fronte ad una netta prevalenza anti – americana in Siria ed un suo indefinito prolungarsi
potrebbe incrinare la compatta fedeltà dell’esercito del Cairo, sulla quale gli S.U. hanno fino ad ora
potuto incondizionatamente contare.
Persino Israele non vede di buon occhio la possibilità di un intervento diretto di parte
americana e si è premurato di farlo sapere pubblicamente attraverso la sua fedele portavoce italiana,
Emma Bonino, “casualmente” attuale Ministro degli Esteri della nostra repubblichetta. Il senso del
messaggio è: “Se perfino i servi italiani scalciano e scuotono la testa, allora non è davvero il
caso…”. La crescita della presenza politica di Israele in Italia è dal mio punto di vista evidente. I
radicali da sempre sono “ottimi amici” di questa potenza. Lo smembramento della forza politica
palestinese, l’indebolimento dell’influenza vaticana operata dagli S.U. e lo stesso comportamento
aggressivo ed ondivago di questi ultimi nei confronti di servi e vassalli, hanno contribuito ad
indurre non pochi a porsi sotto questo non grandissimo, ma assai robusto ombrello. Tanto più che
una sottomissione di questo genere non ha certo un sapore di possibile tradimento come le
strizzatine d’occhio berlusconiane a Putin.
In queste ore l’intervento sembra sempre più certo ed imminente, io continuo a dubitarne.
Tuttavia esiste sempre la possibilità che il calcolo americano conti su una sostanziale passività
russa, al di là delle dichiarazioni di questi giorni. Del resto un precedente esiste, quando i russi,
nella Guerra del Kippur, rifiutarono il loro appoggio all’Egitto contro l’intervento diretto degli
americani in appoggio all’esercito israeliano sconfitto. Si era nel 1974 ed un intervento sovietico
sarebbe stato più che logico, ma non avvenne. I russi pagarono cara la loro rinuncia. Infatti,
conclusa la guerra con una pace di compromesso, l’Egitto passò armi e bagagli sotto lo scudo USA.
Anche stavolta potrebbe accadere, data le scarse informazioni effettivamente disponibili, tutto è
possibile. Ciò non di meno continuo a ritenere l’eventualità di un intervento diretto americano, non
effettiva. Vedremo.


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