Pensieri rasoterra:
Se è vero che il gattopardismo imperante finisce col giustificare la politica del “fare”, o del “tanto per fare”, evocata implicitamente dallo stakanovista catodico Renzi, questo stesso affaccendarsi, n’importe quoi, pur di smuovere l’immobile culo di pietra della politica italiana, sembra un proposito votato a far danni, allo stesso modo di quelli provocati dal suo opposto modale. In tal senso, ad un immobilismo e ad un’indolenza favoriti dal surplus di pensiero (Amleto o l’Hans Karl di Hofmannsthal, seppur con dissimili inclinazioni: “il mio lato debole -dice- è di non sapere quasi mai vedere il definitivo”), ve n’è un altro, inverso ma altrettanto pericoloso, dettato dalla sua completa mancanza: l’ipervelocità centripeta che sostiene il vuoto rendendolo sostanziale.Un’illusione prospettica. Il trucco: non dare tempo al pensiero di adeguarsi alla prospettiva, rilanciando l’effetto morgana nel susseguirsi di rinnovati punti d’osservazione. La stabilità del divenire apparente, quella del conte di Salina. La retorica gonfiata e propinata da questi irrequieti che non stanno fermi nemmeno un momento, quella del “meglio qualcosa che niente”, sembra appagare così, ancora una volta, esclusivamente quegl’istinti immediati, soddisfacendone le momentanee pretese elettorali. Rivolgendosi alla pancia dei cittadini, promuove in fondo ciò che ha sostenuto e sostanziato ogni politica “vincente” sinora: fornire ciò di cui il popolo ha bisogno, o il cui bisogno viene instillato, per raccogliere poi una qualche pallida gratifica col voto. Il do ut des reificato oggi a voto di scambio. Beninteso, il taglio dell’Irpef e la filastrocca degli 80 euro in più in busta paga, per i redditi che non superano i 28.000 euro lordi annui, è pur sempre una contromisura utile a combattere la crescente crisi dei consumi. Ma in un’epoca in cui si risponde di quel che si fa solo alla contingenza (il popolo non ha memoria, e non vuole averla) manca il “perché”, manca il motivo di ogni sedicente presa di posizione che vorrebbe concretizzarsi in azione fattiva, latita una qualsiasi visione d’insieme sul futuro e sulla direzione-senso che dovrebbe caldeggiare qualsiasi “ponderata” azione di governo. Al vorticare privo di senso del “qui ed ora”, manca il tempo e la voglia per progettare quel “paese che si vorrebbe costruire” (piano industriale, riqualificazione del territorio e delle competenze, cronica inettitudine nel comprendere i radicali mutamenti economici, energetici, alimentari, globali). Eppure, nonostante l’affaccendamento sterile che ne abilita ironicamente l’agire politico, permane ancora la sensazione che manchi dal contesto, primariamente, un pensiero che pensi anzitutto sé stesso. Una prospettiva che non debba rinnovarsi di volta in volta solo per nascondere il nulla che le sta dietro. Che abbia un ampio orizzonte, capace di guardare più in là delle proprie scarpe grazie alla convinzione di un’idea, più che all’appagamento istantaneo di un istinto narcisistico, fintamente democratico. Manca insomma un pensiero capace di astrarsi dal reale (laddove il reale si riduce esclusivamente ad un tornaconto di potere particolare), per poterne comprendere appieno la portata, dandogli infine un senso, una traiettoria da seguire. Al regno della concretezza e della praticità dilagante, o se si preferisce dell’acriticità quale modus per conservare l’eterodiretto status quo, servirebbero forse più filosofia (fosse anche quella aristofanea che non dà da mangiare) e meno slide. Più “senso” e meno fatti (cosa sono, tutto sommato, il peso della burocrazia e del fisco, se non il risultato della demenziale ipertrofia dei “fatti”?). Ecco perché, se il tarantolato Renzi non è uguale ai “rottamati” che lo hanno preceduto, di certo non ne è diverso.