Gli amplificatori mediatici hanno reso ormai di uso comune, negli ultimi tempi, il termine femminicidio. Un neologismo (falso, in realtà, come vedremo) introdotto per indicare l’uccisione di un essere umano di sesso femminile compiuta da un altro essere, molto meno umano, di sesso maschile. Così ovunque si parla di femminicidio, termine che, ma chi mai se lo sarebbe immaginato, è finito pure sulle agende parlamentari tanto da far anticipare (non senza polemiche) il rientro dalle ferie estive dei nostri rappresentanti. Giusto in tempo per la presentazione al Parlamento del Decreto anti-femminicidio approvato dall’ultimo Consiglio dei Ministri.
E poco importa che l’impressione sia quella di uno dei tanti decreti di facciata, tanto per dire che si è fatto qualcosa e andarsene a letto (o al prossimo incontro pubblico a strappare applausi) con la coscienza a posto. Poco importa, già, perché qui, come detto, in realtà vorremmo occuparci d’altro. Come ad esempio di capire se era davvero necessario creare un neologismo per distinguere il genere sessuale della persona uccisa.
La curiosità, giusto dirlo, germina da una visita sul sito web dell’Accademia della Crusca, che di recente ha affrontato ampiamente la questione in un dettagliato articolo di Matilde Paoli. La riflessione parte da una serie di domande legittime: «C’è necessità di una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio?»
Dettagliata, interessante e approfondita la disamina che ne segue. «Se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca - spiega Matilde Paoli -, si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa
India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013)
quale parola si dovrebbe usare? È un omicidio? È un infanticidio? O è qualcosa di più e di diverso, qualcosa che si colloca all’interno di una visione culturale che vede il femminile (non si può certo parlare di donne in questo caso) disprezzato e disprezzabile?».
Il “neologismo” comincia, così, ad apparire più motivato. Ma la studiosa continua spiegando che «non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte». Basti pensare che fino al 1981 (da oggi son poco più di trent’anni) il nostro ordinamento prevedeva pene minori per l’uomo che uccideva la propria moglie in un impeto d’ira scatenato dall’esigenza di salvaguardare l’onore.
Per approfondire l’intera questione rinviamo all’articolo completo, sul sito dell’Accademia della Crusca. Qui chiudiamo con un’altra nota, che va a sfatare la credenza che il termine femminicidio sia un neologismo dei nostri tempi. In realtà, già sul finire dell’800 (ai tempi in cui, oltremanica, era attivo Jack lo Squartatore) Augusto Franchetti, commentando la Giacinta, commedia in cinque atti di Luigi Capuana, notava che autori come «Augier, Dumas, Ferrari, Meilhac e Halevy..., chi non ha un qualche omicidio (che è per lo più un femminicidio) sulla coscienza, getti lui la prima pietra». Ma non solo, documenti storici consentono di risalire ad un utilizzo del termine già nella seconda metà del Seicento, dato che in un testo teatrale anonimo di origine italiana troviamo la forma francese femmicide in una battuta di Mezzetin, personaggio simile ad Arlecchino. Ma se a quell’epoca ci si poteva permettere di far dell’ironia, oggi i tempi sono cambiati, e quando un uomo picchia una donna, a volte fino a toglierle la vita, c’è solo, ogni volta, una misera, triste, sociale e personale ammissione d’impotenza. Nulla di più.
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