C’è una regola soltanto sui voli Air Asia: non reclinare il sedile reclinabile. Non farlo. Non farlo e basta. Mai. È una legge non scritta, un accordo comune, stiamo un po’ scomodi tutti che stiamo un po’ più comodi tutti. È così. Finché non prendi un volo per l’India.
Il volo da Bangkok a Calcutta è per me il primo contatto con questa nuova forma di asiatici che fino ad adesso non avevo avuto la possibilità di osservare da vicino. Gli indiani d’India, non quelli inglesi o quelli malesi o quelli neozelandesi che ormai hanno imparato il significato dei posti numerati, sono un popolo del tutto particolare. L’aereo, ormai in partenza, è la solita zuppa di lunghe file di stretti sedili in finta pelle, poco spazio per le gambe ed un catalogo di gadget in vendita che non valgono la carta su cui sono stampati, ma sono i passaggeri a rendere questo viaggio ordinario qualcosa di straordinario.
“Non può mettere il bagaglio lì signore” spiega calma la hostess thailandese. “Sono seduto qui e voglio il bagaglio sopra di me.” risponde un uomo baffuto senza fare una piega. “Ma signore, non c’è spazio, non è possibile“, “Lo voglio qui, non lo tocchi“, “Ma signore non c’è spazio fisico, devo chiudere lo sportello, la sua valigia pende fuori per metà“. “Qual è il sedile FD2671?” chiede contemporaneamente un altro uomo alla stessa hostess. “Mi dispiace, quello è il numero di volo. Il suo posto è il 27A, come è scritto qui, sotto a ‘seat’“, “Posso sedermi qui invece?“, “Mi dispiace, qui c’è qualcun altro, il suo posto è il 27A“, “Ma il mio il mio amico è qui, io voglio sedermi qui, cosa cambia!“. “È vero, cosa cambia!” dice l’amico alla hostess, “Lo faccia sedere dove vuole, cosa importa!” urla un’altro, “Anch’io mi voglio spostare allora, voglio stare al finestrino” dichiara un altro uomo ancora. “Signore, mi scusi, deve spegnere l’iPad” continua la hostess ad un altro passeggero, “Ma stiamo guardando un film” risponde una terza persona dalla fila posteriore, “Allora posso sedermi qui?” continua quello del 27A “Va bene?“, “No, no..signore..la valigia lì non va bene..no, quello non è il suo posto…spenga l’iPad, siamo in partenza! Seduti, per favore!“. A questo punto credo di aver visto una lacrima scendere sulla guancia della hostess.
L’aereo è praticamente in aria e ancora non è chiaro chi deve sedersi dove. È una situazione geniale, con pochi occidentali seduti ordinatamente con le cinture allacciate, e tutti gli indiani che sembrano credere che il sedile si ottenga con il baratto.
È l’insonne ragazza cinese che alle tre di mattina, consiglia l’area di Sudder Street per cercare una guesthouse. Dopo la prima nottata nell’aria condizionata dell’aeroporto, le porte scorrevoli si aprono all’afa della città e, uno dopo l’altro, tutti gli stereotipi si presentano in fila durante la mezz’ora per arrivare in centro. I taxi gialli sono rimasti indietro quarant’anni per forma e colore, ma non per volume. Il clacson è un suono costante, di sottofondo, più che un segnale d’avvertimento. Oltre ai taxi, autobus dipinti a mano e malnutriti piloti di risciò a pedali cercano di conquistarsi qualche metro di spazio nel traffico, mentre grasse donne in saree arcobaleno tentano di raggiungere l’altro lato della strada tutte in un pezzo. Tutto si muove lentamente e contemporaneamente, non c’è un ritmo ma solo rumore. Calcutta è sporca e consumata, è il caos. Ma nessuno sembra essersene accorto e così, ogni componente di questa grande città, la seconda dell’India, procede nella propria direzione non curante del resto.
Sudder Street dicono sia la Khao San Road di Calcutta. Dicono tante cazzate quelli che dicono cose così. Questa è sì un’area ad alta concentrazione di guesthouse, ma è molto distante dal centro turisico di Bangkok. Non ci sono quelli che vendono scorpioni fritti agli ubriachi australiani. Non ci sono i bambini che vendono braccialetti fatti a mano con su scritto “Fuck Your Dog“. Non ci sono le birre al doppio del prezzo. O l’agenzia di viaggi che vende Valium e Viagra. O il mercato che vende magliette di Hitler in spiaggia. O gli inglesi che si vomitano addosso alle quattro di mattina.
C’e’ invece un groviglio di strade strette in cui venditori di chai si alternano a bettole neanche così economiche. Ci sono una manciata di agenzie che vendono tutte la stessa cosa, i tour per il Sundabarn National Park. Ci sono mendicanti, tanti mendicanti. Bambini e adulti che pisciano al lato della strada. Signori rispettabili con lunghe barbe rosse ossigenate. Ci sono i Sikh e i loro turbanti pieni di capelli da una vita intera. Ci sono le mucche che pascolano sulla statale. È facile perdersi e questo è esattamente quello che accade un numero multiplo di volte. E va bene così. Il primo giorno in India serve per orientarsi ed ambientarsi al nuovo mondo. Calcutta è un buon luogo per questo, perché ogni angolo della strada fa girare la testa come ad una partita di tennis per il numero di cose che intorno a noi accadono, si muovono, sono.
Il primo spacciatore che incontro è quello che mi accompagna per pranzo. Inizialmente si presenta come un organizzatore di viaggi, poi come una guida della città e infine chiarisce sottovoce di offrire tra i suoi servizi anche un etto di erba poco prezzo. Purtroppo non mi è utile perché tutto quello che voglio è cibo, così l’amico decide di portarmi dove si mangia bene, dice, perché non ha altro da fare, è ancora bassa stagione. Scopro che Calcutta è un gran posto per essere vegetariani, le opzioni, per una volta, non mancano ed è raro spendere più di un Euro, anche avendo fame.
Il secondo spacciatore è in realtà una coppia di ragazzi che diverrano nei giorni successivi gli amici migliori di questi pochi giorni in città. I due compagni, al contrario del loro precedente collega, sono questa volta più diretti – “Vuoi un etto di charas?” -, ma nonostante, anche questa volta, non sia interessato ai loro servizi, mantengono la conversazione nonostante non ci siano affari da cocncludere. Anche loro spiegano in realtà di essere agenti di viaggio, ma è bassa stagione, si guadagna poco, i turisti non comprano tour. E così vendono erba. Mi rendo conto quindi che per la gioventù calcuttiana che di andare all’università non può permetterselo le strade sono limitate. Limitate a due, per l’estattezza: o vendi tour per il Sundabarn National Park o vendi il fumo. O entrambe, questa sembra la combinazione più equilibrata.
I cani randagi circolano soli o in gruppo per ogni strada, dietro ogni angolo. Uno prova a mordermi. I clacson continuano. Sempre, imperterriti. Si sente l’odore d’incenso, poi il puzzo di piscio, poi il profumo di chai, poi la plastica che brucia. Tutti salutano. Alcuni stringono la mano, altri iniziano una chiaccherata. Tutto si può comprare, ogni bene è in vendita, ma la migliore forma di intrattenimento è là fuori, gratuita, disponibile a tutti coloro che possono vedere questa città con occhi nuovi. Non c’è una spiegazione o una descrizione che si possa definire accurata o completa di Calcutta. Non è un luogo che si capisce in un giorno, ma probabilmente neanche in un anno. Ma io sono arrivato, e per oggi è quanto basta.