“Vado in Kyrgyzstan“, “In Kyrgychiii?” – Spiegare per telefono dov’è, cos’è o perché esiste il Kyrgyzstan è quasi più difficile che pronunciarne il nome. È minuscolo, lì, strizzato tra l’immensa Cina, il vasto Kazakhstan e più su l’ancora più grande Russia. Se scendi più sotto trovi il Tajikistan, l’Afghanistan e il Pakistan poco più in là, tutti con questo stan che rimbomba, un suffisso che una bella fama, tra chi guarda la televisione, proprio non riesce ad avercela.
Lo ammetto, io non pensavo di arrivare fino a qui e di conseguenza non mi ero molto preparato. Sì, l’idea di arrivare dal Timor Est all’Europa via terra era bella. Ma anche grande, un po’ troppo grande forse. “I soldi non basteranno di questo passo, arrivo dove arrivo poi prendo un aereo” pensavo all’inizio. “Se arrivo a Pechino sono contento, ho tutta la vita per fare il resto” mi ripetevo cercando di giustificare in anticipo il possibilissimo fallimento. E invece sono qui. I soldi sono bastati, le energie anche. I tempi previsti, dodici mesi, no, ma va bene così. Sono entrato in Kyrgyzstan da pochi giorni superando il Passo dell’Irkeshtam dalla Cina, e da qui indietro non si torna.
È un caso che abbia superato il confine senza problemi. Fino a ieri una protesta bloccava l’unica strada a disposizione e mi ero già preparato a ore di autostop e altrettante di cammino dato che tutti i mezzi pubblici erano bloccati. La protesta non violenta che impediva agli autobus l’ingresso in Kyrgyzstan aveva del geniale: se i primi giorni un gruppo di persone in tanto tradizionale quanto ridicolo conico cappello bianco si sono semplicemente sedute in mezzo alla strada, dopo poco la durezza dell’asfalto li ha portati a trasferire le proprie yurte al centro della via. Mi sono immaginato per un momento in quante parti del mondo una cosa del genere potrebbe succedere: chi protesta di solito lo fa con una marcia, con degli striscioni. A volte ci sono i megafoni, i cori, qualcuno che spacca qualche vetrina e magari si infila in tasca un paio di iPhone. In Kyrgyzstan invece prenodono la loro casa, la spostano per strada e ci vanno a dormire dentro.
Qualcuno dice che il nomadismo scomparirà nel giro di pochi anni. I giovani si stanno spostando nelle città e hanno poca voglia di tornare a vivre in un cilindro fatto di pelle. Eppure, oltrepassando vallate e colline tra le più verdi che abbia mai visto, non riesce proprio a venirmi in mente un’immagine migliore. La strada che percorriamo è semideserta per la maggior parte delle dodici ore di viaggio da Kashgar a Osh e l’autista strabico può prendere le curve un po’ come vuole, non c’è rischio se non quello di ribaltarsi e rotolare a valle. Le curve, in questo paesaggio ondulato, non finiscono mai, ma è proprio grazie a queste che senza spostare lo sguardo dal finestrino riesco ad avere una vista a 360 gradi. I prati infiniti sono punteggiati da yurte da cui una colonna di fumo si perde nel cielo ed intorno ad esse decine, centinaia, di cavalli hanno lo spazio che vogliono per stendere le gambe. Montagne innevate spuntano un po’ in ogni direzione, in Kyrgyzstan sono 88 le catene montuose e dietro ogni curva sembra apparirne una nuova. Certo, questa è l’estate, si capisce come all’arrivo del primo freddo non ci si senta più così accolti da questi monti, ma è proprio per questo che i Kyrgyzi vivono nelle yurte: quando l’ambiente non è più ospitale si smonta, si salta a cavallo e si va dove l’aria è più calda. Un po’ quello che negli ultimi anni è stato per me con il mio zaino. Ma senza cavallo.
Prima dell’ingresso ufficiale c’è una terra di nessuno per 160 chilometri, tra la fine della Cina e l’inizio del Kyrgyzstan, un po’ a dire “a noi non piacete voi, a voi non piacciamo noi, non è il caso di stare troppo vicini”. Qui in Kyrgyzstan sono un misto di russi, arabi e cinesi. Un ufficiale di dogana mi accoglie con un kalashnikov in mano e una faccia dall’espressività di una linea retta. “You spik russian?“, “No“. “You spik turkish?“, “No“. “You spik kyrgyz?“, “No“. “I speak italian…“, la butto lì. E tutto cambia. “Aaaahh mafia! Vaffanculo! World cup finish eh? Ahahah!” scoppia il militare agitando il suo fucile come se non potesse sterminare tutti i passeggeri dell’autobus in meno di sette secondi. “You are veri veri velcome to Kyrgyzstan“. Questo posto mi piace già.
Questa modo diretto di dialogare non è maleducazione. Il senso dell’umorismo di un mattone e l’assenza di “scusa”, “mi dispiace”, “per favore” può suonare un po’ ostile ma è semplicemente un modo di far arrivare il messaggio in modo chiaro, senza accessori inutili come cortesia o gentilezza. Sono mezzi russi in fondo. Il mio primo giorno in Kyrgyzstan lo passo attaccato al finestrino di un autobus, ma è all’arrivo ad Osh, verso le 11, che ho un secondo contatto umano. L’unico locale aperto è l’incrocio tra la più triste discoteca polacca e la più anonima trattoria al lato di una qualsiasi statale. Giovani sudaticci si scambiano sguardi neanche troppo convinti al ritmo di un disco appartenente all’era sovietica trovato in cantina della nonna del proprietario. Che nel mentre sta squartando un montone nella cucina aperta ai visitatori. Se in Cina ero riuscito ad evitare la carne mostrando ad ogni oste un biglietto con scritto “no carne”, qui sono colto di sorpresa. Il menù in cirillico mi dà speranza, perché se sapessi cosa c’è scritto mi renderei conto che il piatto più vegetariano è qualcosa di simile all’intestino di bue. Un’immagine di un piatto di riso potrebbe essere l’unica soluzione. Punto il dito. “No“. “Come no?“, “No“. “Finito?“, “No“. “Vabbè, noodles?“, “No“. Puntalo te il dito allora, cerco di dire a gesti. La poco vogliosa di vivere cameriera scorre il dito tra le immagini del menù fino a fermarsi su quello che a me pare uno stufato di testa di qualcosa. Sono orecchie quelle?
Ho una fame che abbaio, non mangio dalla mattina. In questo disco-ristorante non sono in vendita né verdure, né simpatia. Punto il dito su un pezzo di pane. Mi arrivano dei ravioli ripieni di grasso. Né carne, né pesce, né una carota o un mezzo pomodorino. Solo bianco grasso colante di altro grasso. Mi guardo intorno e penso ai giovani kyrgyzi che si sono lasciati le yurte e le verdi vallate alle spalle per finire a strusciarsi l’uno con l’altra in una grigia trattoria di città, con un biglietto di sola andata. Chissà se sapevano a cosa sarebbero andati incontro. Poi penso ai cavalli, che si sono lasciati le yurte e le verdi vallate alle spalle per finire a pezzetti in un raviolo al vapore, con un biglietto di sola andata per la mia pancia. Chissà se sapevano a cosa sarebbero andati incontro.