Postato il giugno 12, 2012 | CINEMA | Autore: Michela Tetto
La prima sequenza del film è ambientata nel luogo che è la fine di tutte le storie, davanti alla tomba del padre del protagonista, morto durante la prima guerra mondiale all’età di 25 anni. È dal bisogno, avvertito sin da bambino, di dare un volto, una storia al genitore mai conosciuto, che Jacques inizia a compiere un lungo percorso di ricerca di una purezza nella genesi, nel momento stesso della nascita (da qui il titolo), e di riscoperta delle proprie radici in una terra che sembra volerle rigettare. Capire se la vita valga o no la pena di essere vissuta è un tema che Camus ha affrontato più volte durante la sua carriera di scrittore, e stavolta ha cercato di risolvere tale problema filosofico con un invito a ritornare alle origini, alla purezza del qui e ora, al chiedersi semplicemente se quest’inverno «staccheranno o meno la luce in casa nostra». Ci ritroviamo così proiettati su due piani temporali; il primo risale agli inizi del ‘900, e in esso ritroviamo Cormery ancora piccolo, che «contiene già i germi dell’uomo che diventerà», che si lascia trascinare nelle scorribande degli altri bambini del quartiere, che subisce le violente punizioni di una nonna dispotica che tenta di prendere il posto del padre.
Il secondo è quello a cui appartiene il Cormery adulto, che vive con profonda difficoltà la sua posizione nei confronti del proprio paese, assetato di libertà e ostile a chi, come lui, pur sentendosi profondamente algerino, ha origini francesi. Tale ostilità è già accennata nel comportamento animoso che un compagno di classe algerino mostrerà nei suoi confronti; quest’ultimo, ormai padre, dovrà però chiedere aiuto proprio a Cormery quando il figlio verrà arrestato perché coinvolto in uno dei tanti attentati che negli anni ‘50 sconvolsero l’Algeria. Funge da collante tra i due piani la figura di una madre tanto amorevole quanto incapace di difendere Jacques dalla verga della nonna, e che, anche a distanza di decenni, continua a preparargli il pranzo come se non fosse mai andato via. Tra i tanti momenti da ricordare, un lungo piano sequenza in cui il piccolo protagonista cammina verso il mare come l’Antoine Doinel di Truffaut, osservando la madre innamorata o la nonna sospettosa e tutto comprendendo, e un delicato omaggio a “Bonjour tristesse”, pellicola di Otto Preminger del 1958.
Una storia commovente, segnata dalle difficoltà incontrate dall’“altro”, il “diverso”, che non è venuto elemosinando il pane, ma ha persino colonizzato. E la posizione di Camus viene piazzata al centro della riflessione concettuale del film: contrarietà al colonialismo e adesione ai valori della resistenza, ma non allo scopo di una lotta armata, non allo scopo di far sgombrare i coloni, tantomeno con la violenza. Ecco il significato del discorso tenuto da Cormery davanti ai suoi concittadini: «Vorrei dire agli arabi che sono pronto a difenderli fino alla fine. Ma se scaglieranno la loro rabbia contro mia madre, che ha sofferto le loro stesse disgrazie, allora io sarò loro nemico». Al maestro, altra figura chiave del viaggio di Cormery, Camus affida il compito di svelare il punto focale del suo libro, quando, ormai anziano, afferma che «Quello che non ti dicono a scuola quando spiegano l’Impero Romano è che qualche volta si deve stare dalla parte dei Barbari».