Ogni volta mi ripeto che sarà l’ultima, ma il problema è che non ce la faccio. Non resisto. E’ più forte di me.
Sì, ho tra le mani l’ultimo numero di “Echi della Valle Olona”, giornale vicino all’amministrazione Melis.
Il colonnello Francesco Cosimato, nell’articolo “Una spinta all’immobilismo dinamico”, sembra supportare delle tesi che farebbero impallidire Margaret Thatcher. Il fine ultimo è un fantomatico “sviluppo” e per raggiungerlo dovremmo affidarci ciecamente alle forze dell’ultralibero mercato.
In questi anni i media se le sono inventate tutte per evitare di parlare di sviluppo, pur di compiacere i poteri forti hanno ripetuto fino alla noia la solfa del paese che conquista il mondo con la piccola e media impresa, quella che non potrà mai diventare grande perché ai soloni dei “diritti acquisiti”, cioè dei privilegi che non potranno essere estesi ai giovani, non piace che si licenzi qualcuno.
Sulle pmi vorrei segnalare un post che ho pubblicato ieri su On the Nord che descrive la forza di questo tessuto produttivo, nonostante tutto. Certo, la sfida dell’internazionalizzazione impone anche dei cambiamenti, e i tempi impongono il più importante dei cambiamenti, quello generazionale, ma fino ad ora il tessuto produttivo italiano, soprattutto quello del nord Italia, è stato competitivo. Comunque, non ho capito il legame tra dimensioni dell’impresa, poteri forti e licenziamenti.
Continuiamo.
La parola “licenziamento” non piace a nessuno, mentre a tutti piace quella “assunzione”, il problema è che il libero mercato prevede che si usino tutte e due per avere la forza lavoro dove serve e non dove vogliono i sindacati e i politici. In un sistema economico normale colui che perde il lavoro da una parte lo trova dall’altra e senza scassare i conti dello Stato, senza ricorrere a qualcuno che gli garantisca un posto utile solo a far debiti, ne abbiamo già abbastanza.
Ma in che mondo esiste questo “sistema economico normale”, dove si passa da un posto di lavoro all’altro con estrema facilità, magari anche quando si è in periodo di recessione? Un articolo di Giovanni Stringa pubblicato oggi dal Corriere racconta che delle nuove attività commerciali aperte nel 2007 il 40% è stato cancellato. Il sistema economico italiano (evidentemente non è “normale”) è costituito, in buona parte, da autonomi, professionisti, microimprese, imprese individuali: come gli spieghiamo che se perdono il posto di lavoro ne trovano un altro, dato che il posto di lavoro se lo creano ogni giorno?
Il problema, ad ogni modo, è qualsiasi minima garanzia per i lavoratori:
Fin quando i vecchietti della CGIL staranno abbarbicati a quello Statuto che ha distrutto il tessuto industriale italiano, i loro nipotini potranno andare in giro con le cuffie del lettore mp3 nelle orecchie e la paghetta del nonno in tasca, quei soldi che vengono fuori dalla pensione retributiva.
Cioè, non l’articolo 18. Qui il problema è tutto lo Statuto dei Lavoratori. Abbiamo trovato il colpevole della crisi del debito italiano: lo Statuto dei lavoratori. In effetti, leggendo il primo articolo viene da chiedersi come mai nessuno ci abbia pensato prima:
I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.
Se non credete a ciò che state leggendo – e neanche io ci credevo – ecco il passaggio che fa crollare qualsiasi dubbio:
Il mondo va e viene e noi stiamo ancora a discutere di Statuto dei Lavoratori e del suo ormai celebre articolo 18. Gli industriali di mezzo mondo delocalizzano la produzione dove il lavoro ha meno vincoli, mentre noi in propositi dobbiamo ancora assistere agli anatemi su qualsiasi riforma. Tante nazioni sgommano sulle ali del lavoro dei loro cittadini, noi noi non riusciamo a togliere il freno a mano dei veti politici.
In sostanza, dovremmo prendere come esempio la Cina, secondo Francesco Cosimato. Eliminiamo vincoli al lavoro, imitiamo la Cina. E’ bastata una rapida ricerca su internet per sapere che, nel 2007, ci sono state 100.000 (centomila!) morti sul lavoro in Cina. “Rispetto al 2006 è andata meglio, fa sapere il governo”.
Queste nazioni sgommano. Certo. Esiste un indicatore sintetico delle disuguaglianze all’interno dei Paesi, si chiama Coefficiente di Gini. In Cina le disuguaglianze sono molto elevate (curioso che il dato sia simile a quello degli Stati Uniti). Pochi sgommano, tanti vengono, invece, sgommati.