Il 5 agosto rimarrà negli annali come una giornata storica nel cammino della Turchia verso la democrazia. La 13esima Alta corte criminale di Istanbul - in un annesso blindato e sorvegliatissimo della prigione di massima sicurezza di Silivri (a un'ora di macchina dal Bosforo) - ha emesso l'atteso verdetto del "processo Ergenekon": la Gladio turca, lo "stato profondo" ultra-nazionalista - Ergenekon è un luogo ancestrale di mitica rilevanza - accusato di omicidi, di campagne intimidatorie e propagandistiche contro le minoranze, di attività sovversive per rovesciare il governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere dal 2002. Le sentenze e le reazioni politiche sono lo specchio di un Paese che - ancora alle prese con una difficile e contestata transizione dall'autoritarismo laicista e militarista - appare sempre più diviso, privo di una legittimità condivisa.
I giudici del tribunale speciale sono stati duri, implacabili. Dei 275 imputati, solo 21 sono stati assolti: gli altri - alti gradi militari (alcuni in servizio, molti in pensione), avvocati, docenti universitari, ex rettori di prestigiosi atenei, giornalisti, intellettuali - hanno avuto ricevuto pene detentive che vanno da 5 anni a doppi ergastoli. Tra i militari: i generali İlker Başbuğ (ex Capo di stato maggiore dal 2008 al 2010), Hurşit Tolon, Hasan Iğsız, Şener Eruygur, Veli Küçük, sono stati tutti condannati al carcere a vita (Küçük per due volte, con 99 anni e un mese aggiuntivi); il colonnello Arif Doğan, riconosciuto come fondatore dell'Unità di intelligence anti-terrorismo della gendarmeria (Jitem) che ha seminato per anni il terrore nel sud-est a maggioranza curda, se l'è cavata con 47 anni.
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