Se un giorno il mondo ti sembrerà troppo piccolo per contenere la tua voglia di comprendere o semplicemente quella di paragonarti ad altro, credimi, non esitare, prendi lo zaino e parti dove ti sospinge il tuo sesto senso. È quello che feci negli anni Settanta e non mi sono più fermato, consapevole che ci avrebbe poi pensato il tempo a richiamarmi a dei doveri più sedentari. Nel Novanta, in Francia, feci conoscenza di una giornalista americana, scriveva articoli per un famoso quanto controverso periodico anglo-statunitense e fu grazie a lei che, un pomeriggio uggioso, mi ritrovai quasi per caso faccia a faccia con un certo Ricardo Ramirez.
A quell’epoca non sapevo nemmeno chi fosse quell’affascinante ragazzo dallo sguardo vispo e dal sorriso ammaliante e quando lo seppi misi più di dieci anni per digerire l’inesorabile verdetto che la mia coscienza di borgataro romano rifiutava tenacemente d’accettare. Il problema era che, nella mia vita, ne avevo conosciuti a decine di Ramirez e li avevo quasi adulati, di sicuro colpa del loro eccezionale carisma che li destinava naturalmente a essere dei veri trascinatori di folle. Attraenti, spavaldi e un po’ fanfaroni, i miei Ramirez conquistavano tutti i prototipi del genere umano. Il debole, ne faceva l’antieffigie della propria frustrazione, mentre il potente il riverbero del proprio egocentrismo.
Incontrai Ricardo nella prigione statale di San Quintino, realizzando solo molto tempo dopo di quanto fosse assurda la struttura carceraria americana. Ignoravo infatti che proprio in quegli anni per far fronte al forte incremento dei reclusi (circa due milioni), il governo degli Stati Uniti aveva accettato e poi adottato un originale progetto per creare un certo numero d’istituti penitenziari privati. La vera singolarità di una tale rivoluzione sociale consisteva nel fatto che nelle carceri gestite da privati i 550.000 detenuti erano attivi e preparavano, lavorando, la propria eventuale reintegrazione nella società. In quelle statali, invece, come appunto San Quintino dove erano imprigionati i criminali più pericolosi e i condannati a morte, c’era non solo una disparità di trattamento tra i detenuti ma anche un’incomprensibile inoperosità congenita delle parti.
La condizione di detenzione per il piccolo malvivente era ben peggiore di quella del residente nel death row (corridoio della morte): infatti lui, che costava allo Stato 49.000 dollari all’anno, era quasi irraggiungibile dall’esterno, mentre i circa 675 condannati a morte che ne costavano 138.000, beneficiavano di un trattamento privilegiato, telefono con linea esterna attiva, televisione, videoregistratore, cella aperta durante una parte della giornata e, nel caso ricevessero visite, potevano perfino isolarsi in un locale contiguo alla cella, in completa intimità con il visitatore.
Incongruenza di un astruso capitalismo di circostanza. Fu appunto lì che incontrai Ricardo, sereno e sorridente, ben pettinato e con degli occhiali scuri che gli davano quell’apparenza da rock star che le donne tanto adoravano.
Il profeta di Satana - Autobiografia raccontata da Ricardo Ramirez, il cyber criminale che terrorizzò l’America degli anni ‘80 di Silvio Fazio
Collana Eretica
104 pagine
ISBN: 978-88-6222-130-6