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Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 15, 51-58.
Un paio di millenni fa, un signore molto ispirato, raccontò queste cose. Molti individui vi credono ancora (e anche a me, lo confesso, piacerebbe farlo). Ma proviamo a fare un esperimento mentale. Cioè poniamo che, finora, un tale tipo di racconto non fosse mai stato scritto e venisse un signore sulla quarantina, ispirato come Paolo e con lo stesso suo carisma "profetico", a dirci queste cose col conforto di una rapida diffusione mediatica. Bene, quanti individui sarebbero disposti a credergli? Credo in pochi, se non qualche sparuto gruppo di invasati. Com'è dunque che di fronte a certi temi come la morte, nessuno (o quasi) avrebbe oggidì l'ardire, non dico pensare, ma di scrivere certe cose?
Ciò nonostante procedo ad una rapida autoanalisi: mi verifico e posso, più o meno in fede, affermare di aver abbastanza rivestito il mio corpo di incorruttibilità: superbo non lo sono, a volte la mia modestia raggiunge dei livelli parossistici; ti nemmeno, perlomeno non mi sento tale; invidioso? Bah, qualcuno invidierò di certo, ma le mie invidie non vanno ai miei contemporanei; goloso non direi proprio, proprio no; irascibile a volte, ma raramente, molto raramente proprio come le formiche che nel loro piccolo... Da questi cinque vizi mi sento abbastanza immune; cado un po' nella lussuria (mai abbastanza) e nell'accidia (non trovo il farmaco giusto). Dunque sono lì lì per compiere le scritture: ma la morte basta davvero questo per sconfiggerla? Cioè mi basterà essere un po' meno lussurioso e accidioso per avere la patente dell'immortalità?Pensavo queste cose mentre sono uscito a fumarmi una American Spirit, quando sulla lampada dell'ingresso di casa mia vedo un calabrone ronzare vertiginosamente: mi spavento, prendo la scopa, lo colpisco, cade a terra, mi ci avvento con la suola delle scarpe e lo sfrittello finché spremo il suo olio motore da elicottero. Mi spiace un po', povera bestia, ma i pungiglioni mi sono sempre rimasti sui.
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