Ogni compattezza di tipo “etnico” presuppone una sorta di arruolamento (la terminologia militare non è casuale) degli individui facenti parte di un dato gruppo o fazione in nome di una causa che alla fine coincide esclusivamente con la tenuta della compattezza stessa. “Tradire”, in questo senso, significa esercitare in primo luogo una salutare riflessione su ciò che determina la compattezza in quanto tale. Chi tradisce, dunque, traduce il monologo dell’appartenenza su un piano che può essere condiviso da più appartenenti a quel tipo di linguaggio, e in questo modo ne mostra l’universalità. Possiamo paragonare un tale scatto di livello alla facoltà di porsi in una posizione sopraelevata rispetto a un paesaggio di forme in movimento. Stando all’interno di quelle forme non è possibile rendersi conto delle differenze ma anche delle somiglianze reciproche tra forma e forma, né – soprattutto – comprendere che la forma all’interno della quale siamo collocati assume e muta il proprio profilo in base agli spostamenti che muovono le linee delle forme alle quali pensiamo di contrapporci. Ma basterà appunto conquistare un punto di vista superiore al gioco delle reciproche appartenenze, basterà coglierne la comune logica generativa, per qualificare il tradimento della parzialità come denuncia di ogni unilateralità e quindi anche come via d’uscita dal labirinto di contraddizioni che parzialità e unilateralità evidenziano in condizioni di conflitto (essendo poi esse stesse, generalmente, causa di conflitto).
In: Stare insieme è un’arte. Vivere in Alto Adige / Südtirol, Verlag alphabeta Editore 2012