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A Como si diceva che “de bei e de brutt ghe n’è de part tutt”. Un’opinione condivisibile, naturalmente, e anche il borgo di Sant’Agostino non faceva eccezione. Gli uomini erano per lo più robusti, quasi nerboruti per via dei remi e del carico e scarico delle merci nel porto, e le donne bellocce. Le lavandaie non erano solo il ritratto della salute, conseguenza del fatto che lavorassero per molte ore all’aria aperta, sulla riva del lago, anziché nel chiuso di una filanda, ma si mormorava fossero le femmine più disponibili della città. Non era vero ma i loro modi cordiali e a un tempo sbrigativi suscitavano negli uomini la falsa convinzione che fossero prede facili e spesso compiacenti. Caterina era la più bella delle lavandaie del borgo e a diciannove anni era ancora nubile avendo rifiutato le proposte di uomini di ogni età che volevano impalmarla non solo per godere del suo corpo sodo e armonioso ma per assicurarsi una prole di bell’aspetto. Era dunque la preda più difficile, la più riottosa. Ella si faceva ammirare da tutti ma non permetteva a nessuno di andare oltre i limiti che aveva imposto. Perché lo facesse, è presto detto: credeva nell’amore vero e non aveva ancora incontrato un uomo capace di fare suonare i campanellini nella sua testa. Inutilmente sua madre le diceva che il tempo cammina con scarpe di lana e dunque doveva decidersi prima che la sua bellezza iniziasse a sfiorire. Caterina rispondeva che chi ama si conficca una pietra nel cuore. Aspettava di trovare almeno una pietra preziosa. Pompeo Mois, figlio di Geronimo detto Valaco, proprietario di due forni e un mulino, non era un uomo prezioso ma una sorta di pietra al collo. Da più di un anno faceva la posta a Caterina poiché si era invaghito di lei. La attendeva fuori dalla chiesa la domenica ma sovente, di nascosto dal padre, sgattaiolava dal forno nella parrocchia di San Nazaro per recarsi al porto e donare a Caterina il pane appena cotto. Chi l’avesse visto aggirarsi presso la riva del Vôo, cosiddetta per l’antico guado, la riva Zarino oppure la Bonola, dove ogni giorno era un incessante raspare di spazzole da parte dell’umile orchestra delle lavanderine, non poteva non fare caso al fatto che avesse sempre con sé una pagnotta o un paio di sfilatini. A quel tempo, il pane venale era di tre tipi. Il migliore, destinato ai ricchi, era di frumento. Il mediano era la formentada con due parti di miglio e una di frumento e il più scadente era il pane di mistura, composto di segale e miglio. Per fare bella figura Pompeo offriva alla soave Caterina il pane migliore. Molti, notando quel gesto, dicevano che la figlia del barcaiolo Piero era fortunata ad avere un pretendente così benestante e generoso. Chi era costretto dalla penuria di mezzi a recarsi al pubblico forno, dove si poteva cuocere l’impasto di farina acquistata a prezzo calmierato presso le riserve depositarie nei magazzini annonari, provava una ragionevole invidia verso la famiglia Porro, che aveva il pane gratis. Di conseguenza, non poche maldicenze presero a ronzare intorno ad essa come vespe insidiose. A Caterina non piaceva Pompeo e gli aveva fatto capire che era meglio se girava al largo. Pompeo non era un giovane brutto né stupido, però aveva alcuni difetti che infastidivano Caterina. Era arrogante e presuntuoso, gli puzzava l’alito e gli piaceva bere. Quando era ubriaco veniva alla luce l’indole violenta. Fu solo a causa dell’ombra della miseria che si aggirava sulle case della Nosetta, un quartiere del borgo così detto perché un tempo vi abbondavano gli alberi di noce, che ella si convinse ad accettare i suoi doni. Nondimeno, nel ringraziarlo ogni volta gli ricordava che vedeva in lui un amico e niente più. Pompeo la fissava con i suoi occhi del colore dell’antracite in cui pareva bollisse la pece per calafatare le barche, e le diceva che alla fine avrebbe ceduto alla sua corte. In cuor suo, Caterina pensava che piuttosto avrebbe accettato di fare la serva per tutta la vita in uno dei tanti conventi femminili della città. Anche lì, il pane non le sarebbe mancato. Di certo non le mancavano i panni da lavare e la fatica era tanta. Poco il guadagno, invece. Da anni, sua madre faceva il bucato per alcune famiglie patrizie, come gli Odescalchi e i figli del defunto cavalier Pantero Pantera, e ciò non costituiva un vantaggio. I nobili, cui non mancavano le risorse, erano tirchi, pretenziosi e pagavano in ritardo. A volte si dimenticavano di farlo, incuranti del fatto che nelle umili dimore delle lavandaie mancasse il necessario. La crisi aveva reso ancora più difficile la situazione e odioso il comportamento di chi, alla faccia dei sofferenti, sperperava in banchetti luculliani, feste, viaggi e spese per abbellire i propri palazzi e le ville. Il timore che la pestilenza si diffondesse anche a Como aveva scosso non poco Caterina, che aveva smarrito il sorriso ma non lo spirito da virago che faceva di lei una giovane donna fiera e indipendente.(continua)
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