Nei primi giorni dalla sparizione della povera Sarah, c’è stato più di un servizio televisivo in cui la parola Facebook veniva ripetuta con ossessività: si cercava nella pagina facebook della ragazza un motivo alla sua sparizione o volontaria o indotta da chissà chi. Ad onor del vero i carabinieri che indagavano hanno chiarito subito di non credere a questa pista, e così il “buzz” , come lo chiamano gli americani, è finito lì.
E questo spiega perché quando parliamo di media non diciamo nulla. Perché al fondo i giornali e i giornalisti pensano “con” l’intero corpo sociale e gli danno voce. Il “nocciolo” della narrazione di cronaca non nasce in redazione. E se i pezzi del corpo sociale che occupano i punti chiave della “narrazione” danno messaggi depistanti, è più facile che i giornalisti seguano. Il brutto è quando tutto finisce nelle mani dei professionisti dell’inquietudine, di quelli che intendono trarre un profitto politico o culturale dalla tragedia. Una corrente di pensiero di cui, grazie al cielo, i carabinieri di Avetrana e di Taranto evidentemente non sono seguaci.
C’è ancora una questione che rimane aperta. Dei social network si parla in termini sesquipedali ovunque, anche in strada. E non si tiene conto che, ancora oggi, il medium più forte resta la televisione malgrado un’informazione spazzatura e i programmi trash che tanto vanno di moda in questo periodo. La dimostrazione c’è stata ieri sera, durante Chi l’ha visto, quando Federica Sciarelli ha informato la madre della ragazza riguardo le operazioni dei carabinieri. Se la tv si fosse fermata dinanzi al dolore i successivi commenti sui social network o sui blog non sarebbero spuntati come funghi. Segno inequivocabile che è sempre l’audience a determinare lo scoop. E la televisione, in questo senso, continua a essere maestra.