Parrebbe che il cinema italiano ultimamente faccia parlare di sé. Ci aveva pensato Paolo Sorrentino qualche anno fa con La grande bellezza a far iniziare la cosa con una pellicola così fuori dagli schemi tipici delle produzioni dello Stivale e che, forse proprio per questo, era stata in grado di accendere così tanto interesse. In questo 2015 però possiamo dire che la nostra settima arte sta continuando a mietere vittime perché al Festival di Cannes possiamo contare la presenza di ben tre pellicole nostrane: Mia madre di Nanni "Guarda-quanto-sono-comunista" Moretti, Youth del già citato Sorrentino e infine questo Tale of tales di Matteo Garrone. Tre titoli, due dei quali diretti da dei registi abbastanza giovani e, proprio quelli, finanziati con dei contributi esteri. Già, qui arriviamo all'annosa questione. Sembra proprio che non si riesca a fare, salvo rarissime eccezioni, qualcosa di totalmente fuori dall'ordinario in Italia, che per fare qualcosa che vada al di là bisogna per forza inseguire la chimera dell'estero, quell'abbandono dei confini che diventano a un certo punto anche dei limiti produttivi. E lo fa persino Garrone, uno che ti ha raccontato la sua terra con film come Gomorra e Reality, ma con un occhio così particolare da farli sembrare dei lungometraggi che vanno a parlare di un qualcosa di così vicino ma, al contempo, così ampio. Anche se non va a parare così distante, perché questo film prende tre delle cinquanta fiabe napoletane contenute nel Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e, pur immettendole in una visione il più internazionale possibile, si fa portavoce della meridionalità del regista - prometto che sarò bravo e non farò nessuna battutaccia sui napoletani.
In un mondo fantastico vediamo dipanarsi tre storie. Una una coppia regale, su consiglio di un negromante, uccide un drago marino affinché la regina ne mangi il cuore e rimanga gravida; due vecchiette cercano di gabbare un re erotomane, inscenando una burla fin troppo complessa e pericolosa; un re morbosamente ossessionato con la figlia alleva una pulce fino a che questa non diventa di proporzioni gigantesche...
Non ci pensiamo spesso, ma la fiaba non è un qualcosa legato unicamente alla sfera infantile. Le fiabe sono un po' le cugine zitelle delle leggende, la raccolta culturale di un popolo che, come i miti, servivano a spiegare qualcosa, a esercitare un ritratto del mondo, rappresentandolo con tutta la sporcizia e la cattiveria che lo caratterizza. Inizialmente Biancaneve non veniva salvata dal cacciatore pentito, ma si concedeva a lui carnalmente, così come secondo altre fonti la bella addormentata del bosco non veniva mai risvegliata e, anzi, anche lì veniva abusata nel sonno. Si è dovuto aspettare l'arrivo dei fratelli Grimm, i quali hanno fatto una raccolta e rielaborazione delle varie storie già esistenti, creando così le versioni conosciute oggigiorno. L'intento di Garrone sembrerebbe quindi quello di riportare la fiaba sul grande schermo ma attingendo a quella che è la sua vera natura e non risparmiandoci quindi passaggi truculenti, omicidi, stupri e altre carinerie varie. Tutte cose che avrebbero potuto contribuire a rendere questo film l'esperienza definitiva del suo genere, il fantastico, dandoci così un fantasy che non abbia paura di sporcarsi le mani (non tirate in ballo Game of thrones, per favore, sono due tipi di violenza diversi) e che possa diventare il riflesso di una riflessione profonda e allo stesso tempo semplice come solo una fiaba sa essere. Invece ne esce fuori una mezza minchiata. Scusate il linguaggio, ma non credo possano esserci modi diversi per definirlo. Anche se a fine visione ho pensato a lungo se era effettivamente il film a non essere riuscito o se ero io a non aver colto diversi passaggi di fondamentale importanza, ma alla fine credo, con una certa supponenza, che questa sia l'unica definizione possibile. Il racconto dei racconti è un'opera ambiziosa, una costruzione imponente ma che però crolla su se stessa perché le fondamenta sono state fatte da un architetto distratto. A soffrirne maggiormente è la messa in scena, davvero statica e quasi televisiva, che quasi assomiglia veramente a una puntata della saga tratta dai libri di George R.R. Martin, incapace di far fruttare l'immagine con la valenza cinematografica che una storia come questa comporterebbe. Per immagini si racconta molto poco, gli stacchi avvengono sempre mediante i soliti sistemi (dopo un poco ne avevo abbastanza di dissolvenze in nero) ma, soprattutto, non si comprende il perché di raggruppare queste tre storie, di frammezzarle fra loro in una maniera abbastanza confusionaria e non come un semplice e linearissimo film a episodi - cosa che, ironicamente, mi avrebbe dato molto meno fastidio. Ma destabilizza maggiormente il non trovare risposta circa quello che dovrebbe essere il fil rouge dell'intero progetto e a cosa debba riferirsi quel titolo, perché l'unione di queste tre storie non porta a nulla e riesce persino a far rimpiangere Cloud Atlas, che nonostante tutto non peccava (almeno, non a questi livelli) dell'imbarazzante ingorgo che avviene qui. L'unica unione che queste tre storie hanno si svolge all'inizio e alla fine, facendoci intuire solo e unicamente che sono avvenute nel medesimo mondo fantastico. Quindi cosa si intende con quel titolo così pomposo? Che questo è il racconto da cui tutti gli altri a venire hanno avuto origine, o che è semplicemente il racconto di tre racconti? Ci rimane solo il dubbio, oltre che tre storie maldestramente attaccate insieme e che sembrano mancare di alcuni pezzi (e qui si torna al non capire se effettivamente mancano o se sono io a essere troppo poco sveglio, ma seriamente, certe cose sembrano messe davvero a caso), per quanto pregne di un fascino non indifferente, ma che purtroppo non riesce a compensare i vari pasticci già presenti a livello di script. D'altronde gli uomini creavano le storie per cercare di dare una completezza al vuoto che sentivano di avere dentro, non per crearne di nuovo. E la scusa del gioco - come sembrano voler suggerire gli onnipresenti saltimbanchi - del raccontare forse non può essere abbastanza. Perché se è vero che i duri iniziano a giocare quando il gioco si fa duro, va anche detto che il gioco è bello quando dura poco. Ma di eccessivo forse c'è stata solo l'ambizione dell'autore.
Da sottolineare comunque il coraggio per aver cercato di creare un qualcosa di diverso, ma questa non può essere l'eterna scusa salvavita.Voto: ★★