Mia moglie mi sta chiedendo quale delle due palline preferisca prima di posizionarle nel rametto predominante dell’albero addobbato che i nostri due gatti, probabilmente infervorati come il resto degli abitanti del loro territorio di scorribande a causa dei preparativi per il banchetto natalizio, hanno appena lasciato rovinare a terra senza danni ingenti, grazie al tappeto che posizioniamo sotto proprio perché conosciamo i nostri polli-felini. Solo qualche pallina caduta da rimettere a posto, comprese le due sulle quali è necessario esercitare il complicato arbitrio. Il punto però è che le due palline sono pressoché identiche, si distingue a malapena una sottile differenza nella trama della superficie e qualcosa di appena percettibile nella sfumatura della decorazione. Almeno per me, che nella mia grettezza maschile e secondo il metro di giudizio ancestrale che i miei geni hanno ereditato lungo millenni di battute di caccia, stupri, angherie, abigeati e variegate lotte per la supremazia del branco di appartenenza, non sono in grado di cogliere dettagli oltre la sfericità e l’utilizzo principe per il quale quell’accessorio è stato pensato.
Così mentre rifletto su quale possa essere la risposta giusta per impedire che si sedimenti una nuova opinione negativa seppur generalizzata – e viziata dalla proliferazione di luoghi comuni che rivestono la presunta superiorità delle femmine sui maschi, teoria che promuovo da sempre e chiunque ve lo può testimoniare – circa il mio sesso di appartenenza, mentre brancolo nella mappa cognitiva alla ricerca del riferimento per muovermi correttamente verso la localizzazione della differenza tra la palla di Natale A e la palla di Natale B, in un eccesso di auto-sopravvalutazione inconscia mi appresto contestualmente ad allestire il pranzo per la coppia di animali domestici che hanno testé attentato all’incolumità dell’abete artificiale.
Ora seguitemi nel seguente ragionamento. La procedura operatore in teoria non lascia spazio per alcun “single point of failure”, come si dice in informatica. Nessuna vulnerabilità in una sequenza di gesti elementari. 1) Si prende la bustina contenente la monoporzione, 2) la si posiziona sulla ciotola, 3) la si strappa lungo la guida a partire dal taglio ergonomico, 4) si getta la parte della busta strappata nel contenitore dell’indifferenziata, 5) aiutandosi con l’altra mano si spreme la monoporzione facendo uscire tutto il contenuto nella ciotola, 6) quindi si getta la busta vuota. Ma mentre mi sforzo di non deludere mia moglie per fornirle il parere che si aspetta da me, vado in burn-out ed ecco che 1) prendo la bustina contenente la monoporzione, 2) la posiziono sul contenitore dell’indifferenziata 3) la strappo lungo la guida a partire dal taglio ergonomico, 4) poso la parte della busta strappata nella ciotola, 5) aiutandomi con l’altra mano spremo la monoporzione facendo uscire tutto il contenuto nella spazzatura, 6) e solo al momento di gettare la busta vuota mi accorgo del bug.
Sia lei che io ci ridiamo su perché poteva andare peggio. Per esempio potevamo essere fermi in piena notte con la nebbia al distributore automatico nella strada provinciale che porta verso il nulla pavese, la macchina completamente a secco e solo venti euro a disposizione, messi i quali nella cassa automatica e selezionata la pompa da cui rifornirsi, lei che mi chiede dove ho messo il cd degli Interpol e io che penso che non l’ho proprio preso. Così afferro senza leggere l’erogatore che fa capo al diesel mentre la mia Picasso, a parte il GPL, va a benzina e lascio defluire nel serbatoio il carburante sbagliato e letale per la vettura. Questo sì che è uno scenario da fatal error. La bustina di cibo per gatti da 0,1 euro al chilo può anche marcire insieme al resto, ma oggettivamente devo fare più attenzione.
E già sono stato graziato il giorno prima perché nessuno ha notato quando, nel reparto ortofrutta del Carrefour, mi sono perso via a osservare la coppia che selezionava gli ananassi più adatti al pranzo della vigilia. Nella ressa dei ritardatari che fanno la spesa il ventiquattro dicembre pomeriggio, in quell’underground umano alle prese con i rimasugli di merce di seconda e terza scelta perché il meglio e il più conveniente è il primo ad andarsene, e la gente quando si tratta di pranzi e di feste non fa sconti a nessuno, tantomeno alla grande distribuzione organizzata che di sconti non ne fa mai abbastanza. Nella povertà di mezzi e di spirito dell’umanità popolare che si riversa a sperperare la tredicesima per accrescere il colesterolo dei propri cari, una donna e un uomo bellissimi e altissimi, probabilmente appena sbarcati da un’astronave lasciata in sosta abusivamente in un parcheggio riservato ai portatori di handicap, sovrastava la bassezza di quella temporanea concentrazione di miserabili di oltre mezzo metro. Lui con la barba scolpita al millimetro a evidenziarne l’alterigia, lei con i capelli biondi e lunghi e foltissimi che ricadevano a boccoli su una giacca in pelo di quelle che in una famiglia normale, rivendendola, ci si sostiene per un anno solare intero. Si vedevano anche dal banco pescheria, grazie alla loro aura luminosa, magri e predominanti mentre con il fare senza compromessi decretavano il frutto perfetto da gustare al termine della cena imminente.
Mi sono distratto a pensare alla loro storia, perché avevo un amico che credeva che tutte le donne fossero come quella, e avevo un’amica che era convinta che si sarebbe sposata con uno così che sembra un attore, e non solo quei due non si sono mai incontrati tra di loro, non solo erano due individui esteticamente mediocri, ma so per certo che hanno trovato partner normali, su standard come posso essere io, anzi spero un po’ meglio, per loro. Invece la coppia dell’ananasso non ho idea di come si sia formata e perché non sia in una di quelle boutique del centro in cui i vegetali commestibili costano un’esagerazione. Quelli che a Natale vanno a trovare qualche parente povero che vive in quartieri come il mio, e quando scendi per strada a gettare la spazzatura, proprio il sacco con il cibo dei gatti che hai buttato per errore perché eri chiamato a una decisione irrevocabile, vedi le loro Porsche parcheggiate davanti alle villette a schiera di edilizia agevolata. Quelli sono i figli che non hanno studiato ma si sono arricchiti, hanno evaso le tasse, e anziché fare acquisti nei negozi dedicati a loro si mischiano a quelli come me, che poi si distraggono a immaginare tutto questo e sbagliano a digitare il codice sulla bilancia. Così rischiano di pagare un casco di banane transgeniche con il prezzo al chilo di una primizia che non si possono permettere. E meno male, davvero, che mi sono fermato in tempo.
Ma questo racconto di Natale finisce bene, e non solo perché a Natale finisce tutto bene e inizia tutto meglio, questo vallo a dire a mio cognato che poverino si è spatasciato in bici l’antivigilia investito da un coreano distratto. C’era uno spettacolo al Museo degli strumenti musicali, quello ubicato nei locali del Castello Sforzesco. Mia moglie ed io abbiamo accompagnato le bambine, nel senso di nostra figlia e un paio di compagne di classe. Lo spettacolo prevedeva la lettura del racconto natalizio per antonomasia, quello celebre anche di più di quello di Paul Auster (che invece secondo me non c’è proprio storia) e figuriamoci di tutti quelli di scribacchini della domenica come il mio. Quello di Scrooge e dei fantasmi, ci siamo capiti. A dare i biglietti c’era una signora che, dopo averle ricordato che avevamo effettuato una prenotazione e il titolo dello spettacolo, è rimasta perplessa perché non sapeva se l’autore fosse proprio quel “Christian Carol” a cui avevamo fatto riferimento noi, ma forse le avevamo fatto la domanda troppo velocemente, ho pensato io. Forse la signora ai biglietti ha frainteso. Forse è perché quando sono emozionato mi mangio le parole, anche se poi c’è il pranzo di Natale e allora non le digerisco proprio.