Rimbaud nel 1871
Il “ragazzo dalle suole di vento”. Così lo chiamava Paul Verlaine, suo compagno ed amante, poeta anche lui “maledetto”, intrappolato tra il destino di una vita borghese, sciatta e noiosa ma tutto sommato sicura, e quello avventuroso dell’irrequieto bohemièn, del letterato pronto a tutto pur di non dire no alla vita e alle sue numerose offerte. I due poeti non rimasero insieme nemmeno due anni, ma furono due anni fecondissimi, due anni che avrebbero cambiato per sempre la letteratura francese e moderna in generale. Tra scenate di gelosia, rapporti omosessuali, l’uso frequente di droghe e di assenzio, il difficile legame tra i due poeti, così affini come intuizioni ma diversissimi come caratteri, andò sfaldandosi sempre di più. Fino alla famosa “sparatoria di Bruxelles”, quando Paul, stanco delle continue vessazioni del compagno e allo stesso tempo terrorizzato dall’idea di perderlo, sparò due colpi di pistola che ferirono Rimbaud ad una mano.
Verlaine finì in prigione, e vi rimase per diciotto mesi; Rimbaud continuò le sue peregrinazioni, continue, costanti, senza una meta precisa. Già dopo la prima fuga da Charleville, il villaggio dove era nato e dove abitava la sua famiglia, all’immacolata età di sedici anni, Arthur Rimbaud non trovò più requie. Il suo percorso in giro per l’Europa e poi, quando fu adulto, addirittura in tutto il mondo - arriverà anche in Africa, dove vivrà per molti anni, esplorando le regioni sconosciute ed occupandosi delle più varie mansioni, fra cui la compravendita di armi e forse il traffico di schiavi -, è l’esatto parallelo del suo vagabondaggio artistico, della ricerca costante di nuovi approdi dell’intelligenza. È stato lui, infatti, a promuovere il “deragliamento dei sensi”; è stato lui a trasformare il poeta in un veggente, in colui cioè che forza i limiti della percezione per provare a catturare delle verità nascoste; è stato lui, infine, forse più di tutti, a trasformare l’attività poetica in un qualcosa di esistenziale, un’esperienza vissuta nella maniera più profonda: un traguardo, questo, cui la poesia moderna non poté mai più prescindere, dopo di lui. Così scriveva nelle sue Illuminazioni:
Rimbaud a diciassette anni, da
un ritratto di Fantin-Latour
Oppure, ancora, raccontava così, quand’era preda delle sue visioni: “In un granaio, in cui fui rinchiuso a dodici anni, ho conosciuto il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cantina ho imparato la storia. A qualche festa notturna in una città del Nord, ho incontrato tutte le donne degli antichi pittori. In una vecchia galleria a Parigi mi hanno insegnato le scienze classiche. In una magnifica dimora circondata dall’Oriente intero ho compiuto la mia opera immensa e trascorso il mio illustre ritiro. Ho rimescolato il mio sangue. Il mio dovere mi è condonato. Non bisogna nemmeno più pensarci. Sono realmente d’oltre-tomba, e niente commissioni”.
Rimbaud ad Harar, in Abissinia
Quando Rimbaud scriveva queste parole non aveva nemmeno vent’anni. A vent’anni stava già per esaurirsi la sua esperienza poetica, cominciata all’età di sedici anni; bruciata nel giro di pochissimi anni, quest’esperienza è stata qualcosa di folgorante. Dentro di me, sembra dirci il poeta, ci sono le porte del tempo e dello spazio: nella mia vita sono contenute tutte quante le vite; nelle mie azioni ci sono le azioni di tutta quanta l’umanità. “Io sono un altro”: ecco un altro aforisma famoso del Nostro. Ma allora, il viaggio è quindi un atto inutile?Quando Rimbaud morì, aveva solo trentasette anni. Gli era stata amputata una gamba, per un tumore. Da diciassette anni non scriveva più. O meglio, scriveva lettere e relazioni di viaggio, ma a chi gli domandava se si fosse più occupato di letteratura, Rimbaud rispondeva così: “Sono tutte sciocchezze!”. Eppure, a ben pensarci, l’ansia di evadere, di esplorare nuovi territori era rimasta intatta in lui; solamente, si era trasferita dallo spazio immateriale del pensiero a quello concreto della geografia. Rimbaud fu un ottimo esploratore; le sue relazioni dall’Africa facevano il giro d’Europa, e ci si domandava spesso chi ne fosse il misterioso autore. Tutto ciò non ci stupisce, ovviamente: era un percorso che continua, un realizzarsi della propria fantasia.
Eppure ci piace pensarlo così, Rimbaud: mentre si aggira lungo le strade fangose della sua Francia prostrata dalle battaglie prussiane; mentre si aggira con le sue mani in tasca e con il volto un po’ imbronciato, di bambino castigato; mentre domanda informazioni in qualche cascina, a qualche donna di servizio che lo guarda con un misto di interesse e compassione; mentre si ferma a riposare sotto le stelle, con in mano una matita e un pezzo di carta ingiallita, sognando a lungo il proprio excessus mentis e la Comune parigina, la sua casa tanto odiata in cui era sempre stato escluso; respirando i suoi diciassett’anni come il profumo della terra bagnata. Pressappoco in una situazione simile avrà scritto questi versi:
“Me ne andavo con i pugni nelle tasche sfondate,
ed anche il mio cappotto diventava ideale; andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero un tuo fedele. Quanti splendidi amori ho sognato allora!
Gli unici miei calzoni avevano un gran buco. - Pollicino sognante, spargevo sulla mia strada delle rime. L’orsa Maggiore era il mio ostello. - Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.
Le ascoltavo seduto sul ciglio delle strade nelle dolci sere di settembre e sentivo gocce di rugiada sulla fronte, come un vino gagliardo;
e, rimando in mezzo a quelle ombre bizzarre, come se fossero una lira, tiravo gli elastici delle mie scarpe ferite, un piede contro il cuore!”.