Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores è una boccata d’aria fresca in un cinema italiano spesso claustrofobico e asfittico. E non è un caso che ad aprirci i polmoni e gli occhi sia l’unico regista italiano capace di sperimentare più generi, anche a costo di prendere delle discrete cantonate.
Premio Oscar nel 1992 con Mediteranneo, commedia d’inaspettata delicatezza, Salvatores ha poi stupito tutti conducendoci nell’ arcade di Nirvana. È poi inciampato in Denti e Amnèsia, due film che, pur cercando di proporre qualcosa di nuovo, apparivano ancora acerbi, cariati, svagati. Convinse poi pubblico e critica con il pregevole Io non ho paura, seguito da Quo vadis, Baby?, apprezzabile ma non del tutto riuscito tentativo di rilanciare il noir italiano. Poi ancora il cupissimo e gelido Come Dio comanda, il solare e meta-cinematografico Happy Family, Educazione Siberiana e poi l’unico vero film collettivo 2.0, ovvero l’umile e sincero Italy in a Day.
Gabriele Salvatores è quindi a tutti gli effetti il più illuminato ed eclettico dei registi italiani, abile nel donare ai suoi film un respiro internazionale, emergendo dal provincialismo nostrano. Il ragazzo invisibile è una nuova sfida vinta che cerca di aprire una piccola strada al cine-comics made in Italy. Ma Salvatores non spara troppo in alto puntando a portare sul grande schermo supereroi nuovi di zecca, magari tricolore. Pesca nel più vecchio superhero del mondo: l’uomo invisibile, ovvero un personaggio nato a fine Ottocento dalla mirabile penna di H.G.Wells. Un personaggio che ha visto la sua prima trasposizione cinematografica nel 1933 e l’ultima nel 2000 con L’uomo senza ombra di Paul Verhoeven. In versione femminile, come scordarsi Jessica Alba “nei panni” della donna invisibile dei Fantastici 4.
Salvatores ripropone ora l’invisibilità calandola su un ragazzo.
Se da un lato c’è il pericoloso demone della ripetitività del “super potere”, dall’altra c’è la novità di affidarlo ad un minorenne che capirà i pro e i contro del “dono” posseduto. A questo vi aggiunge un gusto metaforico e intimista tipicamente italiano: se in principio l’invisibilità è un desiderio invocato per sfuggire al sentirsi sfigati e vittime di bullismo, diventa ben presto sinonimo di diversità, di chi viene schivato in quanto “altro” rispetto al mondo degli “omologati”. Il protagonista, Michele, si sente inadatto, solo, vessato, patisce il fatto d’essere stato adottato come una macchia scarlatta da nascondere agli altri. Chiede quindi una trasformazione che magicamente si realizza.
A questo punto Salvatores punta sull’ironia, facendo indossare a Michele non il costume di Spider Man, ma quello di un ignoto supereroe cinese con la tuta “color dissenteria” (come gli dirà un compagno alla festa in maschera). Il regista di Turnè potrebbe quindi fermarsi qui, limitandosi a raccontarci la favoletta di un potere che passa tramite un costume speciale preso a noleggio. E invece no, Salvatores fa un passo in più verso il cine-comics tout court. Non solo il potere di Michele viene da lontano, condizione latente sin dalla nascita destinata inevitabilmente a manifestarsi, ma vi aggiunge il più tipico e caratteristico degli sfondi “storici”: la grande madre Russia e i tempi della Guerra Fredda. Insomma, roba da saga degli X-Men che non ti aspetti di trovare in un film nostrano, per di più pioniere in un genere da noi mai esplorato prima.
Una scelta che marca il tono fumettistico del film, pur evitando l’action e la spettacolarità dei cugini americani. In fin dei conti, stiamo pur sempre parlando di un bambino che vuole salvare un’amichetta e non il mondo intero.
In quest’ottica leggera ma non ridicola, incontriamo, tra gli altri, Fabrizio Bentivoglio che parla russo con capello in piega alla Peter Parker e Christo Jivkov (il Giovanni dalle Bande Nere de Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi) nei panni di un cieco che legge la mente altrui celandosi dietro occhialetti tondi neri che ricordano quelli di Joystick (Sergio Rubini) in Nirvana (Salvatores si concede anche un’auto-citazione!).
Di fronte a tutti questi elementi, più che Michele è Salvatores è il vero “diverso” del cinema italiano.
Dal punto di vista visivo, sin dalle prime scene la voglia di voler fare qualcosa di nuovo è lampante. Fondamentale l’ausilio di Italo Petriccione, fido direttore della fotografia sin dagli esordi di Salvatores, che sfodera una luce fredda e nitida che richiama ad un comics stampato in bianco e nero.
Di grande impatto, la scena in cui Michele, nudo, sale la monumentale scalinata del liceo in mezzo a decine e decine di compagni che non lo possono vedere.
Ma non è finita qui. Non contento, Salvatores si prende anche il lusso, e il rischio, di proporci un doppio finale. Una cosa del genere non si vedeva dai tempi del quadruplo finale di Bellocchio per Buongiorno, notte. Dopo un paio di titoli di coda, Salvatores straccia lo stemma del suo piccolo super eroe per mostrarci un colpo di scena che apre la strada, se non ad un sequel (brutta bestia sempre da evitare), quantomeno ad una serie tv.
Insomma, Il ragazzo invisibile, a prima vista un film piccolo e sempliciotto, è in realtà un film grande e denso di cultura e voglia di fare cinema, un nuovo tipo di cinema, anche in Italia.
Un consiglio: volete scoprire come hanno fatto a rendere invisibile il protagonista? Ai titoli di coda rimanete seduti ancora un po’…
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