Va bene, ridiamo, scherziamoci su. A ben guardare, però, bisogna dire che Fantozzi non è soltanto un mito, una figura proverbiale di italiano; Fantozzi è soprattutto il primo film di una serie che, diciamolo pure, ha inciso profondamente nella maniera di intendere il comico, dagli anni ’70 in poi. La commedia all’italiana era agli sgoccioli; alle saghe graffianti sui borghesi un po’ tronfi e un po’ farabutti, sul modo italiano di intendere l’amore e la vita, era seguita una sfilza di film tra loro molto simili che, rinunciando a scavare nel costume e nella mentalità concreta di una frangia sociale, si limitava a panoramiche leggere, di superficie, con l’intento esclusivo di far ridere. Ma anche il modo di far ridere era cambiato. Alla risata consapevole, figlia di un certo giudizio morale, aveva fatto seguito la risata grassa, limitata e di circostanza. Le situazioni si erano come cristallizzate, e i tratti e le caratteristiche dei personaggi avevano perduto ogni attinenza con la realtà: erano divenuti eccessivi, iperbolici, alterati fino all’eccesso. Il comico aveva lasciato il posto al grottesco. Fantozzi si situa all’interno di queste coordinate, nel clima pesante dell’Italia degli anni di piombo, del dopo-boom, quando già il benessere cominciava a ripiegarsi su se stesso, e i primi dubbi a sorgere e rafforzarsi. L’intenzione di Villaggio, prima ancora che di Salce, era proprio quella di creare un personaggio esagerato nei suoi tratti negativi, circondato da un’umanità brutale e opportunista, smascherata e messa in luce dal suo vittimismo congenito. Fin qui niente di nuovo, appunto. La differenza sta nel fatto che, al contrario di moltissime altre pellicole coeve, questa riesce, pur nella sua assurdità e nella sua carica paradossale, a compiere quell’azione di scavo che sembrava ormai dimenticata o volutamente accantonata. Rivediamo attentamente la primissima sequenza. Pina (Liù Bosisio), la moglie del ragioniere Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), sta telefonando in ufficio. La scena ha inizio con l’apertura di obiettivo della macchina da presa: una strizzatina d’occhio alla tradizione comica del muto, su su fino ai fratelli Lumière. La donna è inquadrata di spalle: deve ancora mostrare il suo volto grottesco. Mentre il centralino risponde, una carrellata riprende l’immenso edificio dove ha sede l’ITALPETROCEMETERMOTESSILFARMOMETALCHIMICA: un’allusione tagliente agli accorpamenti selvaggi e ai monopoli stabiliti dalle grandi industrie arricchitesi col boom. L’inquadratura ritorna alla signora Fantozzi, vista sempre di spalle ma con un campo più largo, che ci permette ora di distinguere una stanza della casa: si tratta di un comunissimo interno piccolo-borghese, ben ordinato ma triste, un po’ liso e carente di luce. Finalmente la donna si volta, proprio mentre pronuncia il nome del marito, il protagonista del film. Segue un’altra inquadratura di contrasto: una facciata diversa del grande edificio, con centinaia di finestre tutte uguali, asettiche, come gli impiegati al suo interno. La voce al telefono le risponde in maniera formale e rapidissima, senza un briciolo di intonazione: un vero centralino telefonico, inespressivo e disumanizzato. Mentre la donna continua umilmente a domandare del marito, la cinepresa è disposta ora in un’altra angolazione, che le permette di riprendere la camera da letto: un letto lindo, con le coperte rimboccate, chiaro indizio di una vita erotica assopita o totalmente assente. A un certo punto, la figlia entra nel campo visivo: Mariangela, la proverbiale figlia di Fantozzi (Plinio Fernando), la cui bruttezza è leggendaria. Che succede, dunque? Fantozzi è scomparso, non si trova da diciotto giorni. In ufficio cominciano immediatamente le ricerche: la cinepresa ruota vertiginosamente sotto le miriadi di finestre in serie. Fantozzi viene segnalato all’Ufficio Impiegati Smarriti: l’impiegato come numero, come oggetto. Alla fine, si scoprirà, il ragioniere era stato murato vivo dentro i vecchi gabinetti. La realtà è dunque spinta ai sui limiti estremi, rimaneggiata e gonfiata, certo, ma è pur sempre realtà. La mediocrità inguaribile di Fantozzi è persino assolvibile, perché inserita in un circuito globale di scambi e sinapsi, per cui è tutto l’impianto sociale a traballare. Fantozzi raccoglie in sé tutti i difetti reali di una vasta fetta sociale, così come l’eroe ne incarna tutte insieme le virtù; non si tratta perciò dell’ennesima maschera grottesca, senza volto, ma di una gigantografia impietosa ed esatta, tanto più vera quanto più acutizzata. Come davanti a uno specchio, quanto più ti avvicini tanto più ti deforma; eppure è così che ci si vede meglio.
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Va bene, ridiamo, scherziamoci su. A ben guardare, però, bisogna dire che Fantozzi non è soltanto un mito, una figura proverbiale di italiano; Fantozzi è soprattutto il primo film di una serie che, diciamolo pure, ha inciso profondamente nella maniera di intendere il comico, dagli anni ’70 in poi. La commedia all’italiana era agli sgoccioli; alle saghe graffianti sui borghesi un po’ tronfi e un po’ farabutti, sul modo italiano di intendere l’amore e la vita, era seguita una sfilza di film tra loro molto simili che, rinunciando a scavare nel costume e nella mentalità concreta di una frangia sociale, si limitava a panoramiche leggere, di superficie, con l’intento esclusivo di far ridere. Ma anche il modo di far ridere era cambiato. Alla risata consapevole, figlia di un certo giudizio morale, aveva fatto seguito la risata grassa, limitata e di circostanza. Le situazioni si erano come cristallizzate, e i tratti e le caratteristiche dei personaggi avevano perduto ogni attinenza con la realtà: erano divenuti eccessivi, iperbolici, alterati fino all’eccesso. Il comico aveva lasciato il posto al grottesco. Fantozzi si situa all’interno di queste coordinate, nel clima pesante dell’Italia degli anni di piombo, del dopo-boom, quando già il benessere cominciava a ripiegarsi su se stesso, e i primi dubbi a sorgere e rafforzarsi. L’intenzione di Villaggio, prima ancora che di Salce, era proprio quella di creare un personaggio esagerato nei suoi tratti negativi, circondato da un’umanità brutale e opportunista, smascherata e messa in luce dal suo vittimismo congenito. Fin qui niente di nuovo, appunto. La differenza sta nel fatto che, al contrario di moltissime altre pellicole coeve, questa riesce, pur nella sua assurdità e nella sua carica paradossale, a compiere quell’azione di scavo che sembrava ormai dimenticata o volutamente accantonata. Rivediamo attentamente la primissima sequenza. Pina (Liù Bosisio), la moglie del ragioniere Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), sta telefonando in ufficio. La scena ha inizio con l’apertura di obiettivo della macchina da presa: una strizzatina d’occhio alla tradizione comica del muto, su su fino ai fratelli Lumière. La donna è inquadrata di spalle: deve ancora mostrare il suo volto grottesco. Mentre il centralino risponde, una carrellata riprende l’immenso edificio dove ha sede l’ITALPETROCEMETERMOTESSILFARMOMETALCHIMICA: un’allusione tagliente agli accorpamenti selvaggi e ai monopoli stabiliti dalle grandi industrie arricchitesi col boom. L’inquadratura ritorna alla signora Fantozzi, vista sempre di spalle ma con un campo più largo, che ci permette ora di distinguere una stanza della casa: si tratta di un comunissimo interno piccolo-borghese, ben ordinato ma triste, un po’ liso e carente di luce. Finalmente la donna si volta, proprio mentre pronuncia il nome del marito, il protagonista del film. Segue un’altra inquadratura di contrasto: una facciata diversa del grande edificio, con centinaia di finestre tutte uguali, asettiche, come gli impiegati al suo interno. La voce al telefono le risponde in maniera formale e rapidissima, senza un briciolo di intonazione: un vero centralino telefonico, inespressivo e disumanizzato. Mentre la donna continua umilmente a domandare del marito, la cinepresa è disposta ora in un’altra angolazione, che le permette di riprendere la camera da letto: un letto lindo, con le coperte rimboccate, chiaro indizio di una vita erotica assopita o totalmente assente. A un certo punto, la figlia entra nel campo visivo: Mariangela, la proverbiale figlia di Fantozzi (Plinio Fernando), la cui bruttezza è leggendaria. Che succede, dunque? Fantozzi è scomparso, non si trova da diciotto giorni. In ufficio cominciano immediatamente le ricerche: la cinepresa ruota vertiginosamente sotto le miriadi di finestre in serie. Fantozzi viene segnalato all’Ufficio Impiegati Smarriti: l’impiegato come numero, come oggetto. Alla fine, si scoprirà, il ragioniere era stato murato vivo dentro i vecchi gabinetti. La realtà è dunque spinta ai sui limiti estremi, rimaneggiata e gonfiata, certo, ma è pur sempre realtà. La mediocrità inguaribile di Fantozzi è persino assolvibile, perché inserita in un circuito globale di scambi e sinapsi, per cui è tutto l’impianto sociale a traballare. Fantozzi raccoglie in sé tutti i difetti reali di una vasta fetta sociale, così come l’eroe ne incarna tutte insieme le virtù; non si tratta perciò dell’ennesima maschera grottesca, senza volto, ma di una gigantografia impietosa ed esatta, tanto più vera quanto più acutizzata. Come davanti a uno specchio, quanto più ti avvicini tanto più ti deforma; eppure è così che ci si vede meglio.
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