“La Legge è uguale per tutti”. Questa scritta campeggia sulle pareti delle aule di giustizia e ci appare ovvia. Ma soltanto pochi secoli fa, prima dell’entrata in vigore dei codici napoleonici, ispirati ai principi dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, tale affermazione sarebbe stata considerata non solo “contra legem” ma addirittura eversiva.
Il crollo dell’Impero d’Occidente, benché il Corpus Iuris Civilis Iustinianei sia stato redatto soltanto alcuni decenni dopo, gettò l’Europa nel caos giuridico. Ciò che rimaneva della legge e della giurisprudenza antiche si trovò a convivere con le primitive e sommarie consuetudini giuridiche degli invasori “barbari” che, solo a partire dal settimo secolo, cominciarono a darsi leggi scritte, alle quali erano sottoposti soltanto gli individui appartenenti alle varie etnie “barbare”, mentre i popoli romanizzati continuavano a obbedire alle regole antiche, tenute vive da ciò che rimaneva della amministrazione civile romana e, successivamente, dall’autorità religiosa.
In tale contesto politico vigeva dunque la “personalità del diritto”, in virtù della quale lo stesso crimine veniva punito in forme diverse a seconda dell’etnia del reo. La legge, dunque, come ci appare oggi scontato, non era uguale per tutti.
In seguito, con la progressiva fusione culturale tra i vari popoli e la nascita del sistema feudale, assistiamo alla comparsa di istituzioni giuridiche del tutto particolari, che frammentano ulteriormente l’amministrazione della giustizia e introducono il largo uso di impunità e privilegi personali e di casta.
Fonte di tale diritto era l’autorità regia, che delegava a una classe politica e militare dominante, ad essa legata da un rapporto di fedeltà, la sua amministrazione. A causa della mancanza di un controllo centrale, in grado di garantire una omogenea applicazione delle norme, l’arbitrio del barone, del conte o del vescovo che, nell’ambito della sua giurisdizione, esercitava le prerogative regie, diventava spesso regola, a vantaggio della classe dominante.
Col tempo, venendo progressivamente a sfaldarsi la società feudale, con il suo particolarismo e la sua chiusura, con la rinascita dei commerci e l’affacciarsi sulla scena della classe borghese, che sentiva la necessità di regole certe e comuni, cominciò a rifiorire il diritto romano (tranne che in Inghilterra, dove andò formandosi un “Common law” indipendente dalla tradizione).
In questo mutato contesto sociale e politico, la gran parte dell’Europa occidentale cominciò a uniformare le sue consuetudini e le sue leggi ai dettami del Corpus giustinianeo e in Italia, Francia e Germania fiorirono gli studi giuridici che avrebbero dettato le regole dei nascenti stati nazionali.
Alla fine del medioevo, con l’affermarsi dell’assolutismo regio, quell’ “Ancien Règime” che avrebbe dominato l’Europa fino alla Rivoluzione Francese, continuò formalmente ad essere applicato il diritto comune ma l’influenza e l’arbitrio regio finirono per diventare essi stessi regola, rendendolo vano nella sostanza.
Per almeno tre secoli, dunque, il rapporto tra diritto penale e sistema politico si configura come un rapporto tra un’autorità assoluta, quella del re, che può applicare o non applicare o addirittura stravolgere le regole a suo piacimento, e una legge che rimane sulla carta e spesso non offre alcuna certezza e alcuna garanzia ai sudditi, che si trovano in balia del capriccio del sovrano.
Così il re di Francia poteva, senza alcuna giustificazione e alcun processo, determinare la sorte di un uomo con una semplice “Lettre de cachet”, oppure organizzare processi farsa per condannare al patibolo chiunque lo ostacolasse o distribuire esenzioni fiscali e privilegi a soggetti o comunità che gli avessero dimostrato tangibili segni di fedeltà.
Controllava tutto, non come i sovrani medievali, che si affidavano a vassalli che spesso finivano per usurpare i suoi poteri, ma per mezzo di un’efficiente e affidabile classe di magistrati, burocrati e amministratori, che dipendeva direttamente da lui e i cui componenti poteva liberamente destituire o trasferire senza doverne render conto ad alcuno.
In un tale sistema politico, dunque, pur vigendo formalmente le regole del diritto comune, assistiamo, in sostanza, a una assoluta incertezza del diritto, che finisce esso stesso per ridursi a un mero strumento di potere.
Lo scenario cambia radicalmente con l’imporsi delle idee illuministe e con gli stravolgimenti sociali e politici determinati dalla Rivoluzione Francese. Nei primi anni dell’ottocento, coi codici napoleonici, nascono il diritto civile e penale contemporanei e comincia ad affermarsi quella netta distinzione e indipendenza dei poteri su cui si basano le odierne istituzioni.
Potere politico e amministrazione della giustizia non sono più nelle mani della stessa persona e le leggi cominciano ad essere uguali per tutti, compresi coloro che esercitano il potere politico: una novità assoluta.
La giustizia comincia ad essere una Giustizia con la G maiuscola, diventa un “Potere” autonomo, di fronte al quale ogni cittadino, indipendentemente dal proprio credo religioso o politico, dalla propria condizione sociale o dalla propria origine etnica, ha gli stessi diritti ed è sottoposto al rispetto delle stesse norme, la cui violazione comporta sanzioni uguali per tutti.
Un rapporto paritario, dunque, fra potere politico e potere giudiziario, ma anche un rapporto conflittuale, che può degenerare in tentativi di prevaricazione da una parte o dall’altra in una democrazia malata o essere contenuta nei limiti di una “fisiologica” dialettica tra poteri in una democrazia sana e compiuta.
E in Italia abbiamo una democrazia sana e compiuta o una democrazia malata?
Federico Bernardini
Illustrazione: Statua di Themis, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Statue_of_Themis_edited.jpg