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Il Re costituzionale

Creato il 25 gennaio 2013 da Albertocapece

AD20120428641731-Fiat_s_Gianni_A_tnAnna Lombroso per il Simplicissimus

Una grande chiesa appropriata per il compianto di un imperatore, un composto parterre dinastico, salvo una, reietta o volontariamente assente, per immancabili battaglie ereditarie, le prime file occupate dalla nomenclatura, l’alto prelato che ricorda le inimitabili qualità morali dell’uomo, dell’imprenditore, del filantropo, il sindaco cinto di fascia tricolore, geneticamente mesto ma vistosamente festoso di essere ammesso nel fastoso salotto reale, così torinese così ancien règime.
E poi, fuori, l’immagine del ricordo, il presidente abituato a accarezzare bare, saluta l’aria orbato perfino del cenotafio, gli altri “grandi accanto a lui, come in una pietà di Niccolò dell’Arca, i ridicoli rampolli sempre acchitati come congrui impresari delle pompe funebri, tutti vicini, stretti, difensivi. E poi, lontano, un bel po’ lontano, oltre le transenne, il popolino torinese.
Me lo ricordo il funerale di Agnelli dieci anni fa e non molto è cambiato, già allora c’era l’annuncio della parabola della Fiat e dell’Italia e del lavoro.

Anche allora il saluto e la sepoltura del sovrano fu un rito segnato dalla separazione in una liturgia imperiale. Per ore, il giorno prima, file di gente curva e infreddolita a rendere omaggio al monarca con in mano la Stampa che titolava “Grazie Avvocato”, qualche operaio ma non in tuta e qualche pensionato della fabbrica, che li incorporava e che quando erano sfiniti, vecchi arnesi, li sputava per un po’ nel mondo a giocare a bocce, a cercare di fare amicizia con una città nella quale erano magari arrivati tanti anni fa e ancora estranea, ché loro si orientavano bene solo alla Fiat, che chiamavano la Feroce, feroce almeno quanto la livella che fa giustizia ma che anche lei, poi, nei rituali che la coronano, fa le sue distinzioni.

Infatti, poi, l’indomani, la grande cerimonia degli addii al re costituzionale, al Senatore – andando avanti negli anni si è andati addirittura peggiorando nelle scelte – fu un grande evento mondano e la celebrazione pre-moderna e monarchica del commiato dal corpo del sovrano, mentre fuori della chiesa sostava chi senza di lui non avrebbe potuto sfiorare il benessere, addirittura non avrebbe potuto essere: gli operai, le fabbriche, perfino i manager, sul sagrato, in penombra. Dentro il Potere, fuori il Lavoro.

E dire che lui e la famiglia ce l’avevano messa tutta per incarnare una dinastia industriale moderna, non con gli atti, ma con una poderosa macchina propagandistica, incentrata non certo su un Capitano di Industria, che è arcinota la sua sprezzante indifferenza per la Fabbrica Italiana, delegata a gran boiardi, quanto invece la sua passione per i profitti, ma alimentata da altre “imprese”: scalate, trasvolate, battaglie proprietarie e conquiste d’amore e finanziarie, tic e bizzarrie, passioni e gran rifiuti, lusso e micragnosità, fino all’indennità di accompagnamento per la sua elegantissima infermità, coni di luce dove ammettere esuberanti scapestrati e tenebre dove eventualmente cacciarli crudelmente, da consumatore rapace e onnivoro di piaceri e creature. E l’erre arrotata, e quell’orrore dell’orologio sul polsino, e quella sobrietà dei gemelli di nastrino, e quelle le scarpe fatte sformare dai camerieri, quella frugalità a tavola, quella frase indifendibile: “la ricchezza e la libertà passano attraverso i trasporti, mezz’ora fa ero a Cavallo”, pronunciata scendendo dall’elicottero che aveva sorvolato mari e autostrade occupate da file interminabili delle sue pessime vetture, quelle strade che erano poi i suoi veri feudi i possedimenti della Real Casa.

Una leggenda tagliata su misura per un paese che ama i monarchi più di quanto si affezioni ai dittatori, che ne fa oggetto di ammirazione adulatrice e di imitazione servile, che ne converte i vizi provati in pubbliche virtù e che ne tollera i capricci come le comprensibili, legittime ed amabili esuberanze di chi discende da sacri lombi.
Il mito non lo ha nemmeno costretto alle relazioni pubbliche che facevo fare ad altri, una corte smaniosa di manager, giornalisti, scrittori, artisti, dame, politici, tutti incantati e inebriati dal privilegio di essere ammessi tra i suoi fan, tra i suoi famigli, addomesticati e fidelizzati a vita se si rivolgeva loro con quel “cavo, tu..” e se aggiungeva il nome allora eri arrivato, eri al sicuro..fino al prossimo capriccio, fino al prossimo passatempo, fino alla dannazione dell’oblio. No, le sue erano relazioni private, perché è da quei padroni ereditieri senza fatica che è cominciata la corsa alla privatizzazione di tutto, anche della politica e delle istituzioni, degli aiuti di stato, dell’Iri, delle strade al servizio delle auto, delle auto al servizio del carburante, del carburante in aiuto della politica, in un circolo più vizioso della cocaina, più perverso dello sfruttamento.

Perché è da lì, da quelli come lui, dalla Fabbrica Italiana Automobili e da aziende e imprenditori che hanno dimesso ogni interesse per produrre, per investire in tecnologia e qualità e sicurezza, preferendo invece giocare con acrobazie finanziarie, che ha avuto inizio questa nostra avvilita e mortificata contemporaneità. È anche da là che lo Stato è scivolato sempre di più in un baratro gregario, utile agli utili azionari, ma ingombrante quanto la democrazia e le sue regole, marginale fino a essere “costituzionalmente” esautorato. È anche da là che si è concluso in miraggio di un capitalismo temperato dall’armonia della tecnica e che dell’organizzazione che mitigano la fatica, della concertazione che ammansisce la sopraffazione, della responsabilità che addomestica lo sfruttamento. Per lasciare il posto all’egemonia assoluta di personalità vuote, futili, che non conoscono la fatica e avviliscono il lavoro, ben protette nella bambagia soffocante delle loro dimore, delle loro banche, delle loro università, delle loro fondazioni, dei loro grattacieli di cristallo nei quali si riflette quella loro contraddittoria, arcaica e dispotica modernità.


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