Ho letto qualche giorno fa un post di Gaja Cenciarelli (traduttrice e scrittrice eccezionale) su Facebook nel quale si chiamava in causa il Re, Stephen King. Gaja fa parte del gruppo I piccoli maestri, scrittori che promuovono, con leggerezza, passione e piacere (come dovrebbe essere) i libri che hanno amato e amano, nelle scuole, leggendo e parlando direttamente con i ragazzi (qui il loro blog con le attività, gli intenti, la loro meravigliosa natura).
Gaja Cenciarelli è appena partita per un tour con in mano Stand by me – Sogno di un’estate di Stephen King e lo racconterà e leggerà ai ragazzi seduti dietro ai banchi.
A questo punto mi è tornato in mente, vivo come può essere un ricordo legato a un libro che hai letto e ti è rimasto dentro, il periodo in cui, anch’io occupante di un banco da liceale, ho incontrato per caso per la prima volta il Re. L’ho incontrato nel suo libro più corposo (non aveva ancora scritto The Dome), più intenso e articolato, It. Un librone di mille pagine (almeno l’edizione che avevo io) in cui vengono sondate e messe su un palcoscenico le paure più paurose dei bambini: il sangue, la violenza, i tombini che ci sono per strada e che abbiamo paura che ci risucchino, gli anfratti dei boschi. La cosa che mi fece innamorare di lui è che per descrivere (ed esorcizzare) le paure, le rendeva tangibili, concrete (un clown-mummia che usciva dai tombini, si nascondeva fra gli alberi, appariva in bagno dopo che una colata di sangue aveva inondato il lavandino di Beverly) e chiamava tutti i bambini della storia, ormai adulti, a stare di nuovo insieme, affrontarle e sconfiggerle.
Mi affascinò talmente tanto che decisi di leggere (quasi) tutti i suoi libri. E in ognuno trovavo un giusto equilibrio fra piacere, relax e suspance, quell’ansia che ti prende aspettando che venga fuori il mostro nascosto nascosto dentro l’armadio (nel suo caso, che scoppi l’ira di Charlie, che Carrie si animi, che arrivi Cujo o che Johnny Smith veda qualcosa di te che tu non vuoi sapere; scoprire se l’autore di Misery si salvi dalle grinfie della fan folle, seguire Danny e il suo triciclo col fiato corto, tifare per la donna di Gerarld che cerca di liberarsi dalle manette con lui morto accanto). E trovavo – caratteristica molto importante e forte che mi faceva divorare in una notte ogni libro – un gioco psicologico che difficilmente ho trovato in altri scrittori “di genere” (che poi, King non ha un genere. King è un genere. Lui riesce a prendere il nucleo più intimo, l’anima, l’aspetto psicologico di tutti i suoi personaggi, tirarlo fuori, analizzarlo senza pedanteria e mostrartelo così com’è, nudo e crudo.
E anche lui si è mostrato, nudo e crudo, nella biografia On Writing in cui racconta di sé, del suo metodo di scrittura e della sua discesa agli inferi (la droga, la dipendenza, la depressione, il “blocco”) e la risalita. E anche quella volta è riuscito a mettere sotto una lente di ingrandimento, a beneficio dei lettori, la sua debolezza e portarla a un livello concreto, tangibile; come dimenticare l’immagine della moglie che getta sul pavimento cicche, cartacce, avanzi di cibo, oggetti da cocainomane e glieli sbatte in faccia, come il clown di It che si metteva davanti ai bambini per mostrare loro l’essenza vera della paura, del terrore in modo che, lottando con qualcosa di tangibile e reale, potessero sconfiggerla.
E fortunatamente il re, adesso, è vivo! E scrive per noi.