Parrebbe un ossimoro, il realismo onirico. Eppure, tutta l’arte cinematografica si regge sul rapporto tra questi due poli opposti, l’impressione di realtà e la proiezione onirica.
L’opera di Fellini ha indagato questo rapporto come nessun’altra, cercando ostinatamente un punto di equilibrio, nel quale questi due poli si potessero fondere senza soluzione di continuità.
Dopo l’esordio in affiancamento ad Alberto Lattuada in Luci del Varietà, nel suo primo film autonomo, Lo sceicco bianco, Fellini cerca subito una via per risolvere questo paradosso. Il neorealismo rappresentato dai due giovani sposini provinciali in una Roma post-bellica, si apre su una doppia dimensione onirica: quella mistica del Papa, dal quale intendono essere benedetti, e quella profana dell’eroe dei fotoromanzi, lo sceicco bianco appunto, dal quale la giovane sposina si reca in un effimero pellegrinaggio mondano e postmoderno.
L’orizzonte mitico, la dimensione onirica non sono, per il regista, divagazioni fantastiche per rendere il film più appetibile allo spettatore, ma degli imprescindibili complementi per rendere l’impressione di realtà totale, comprensiva degli aspetti psichici e spirituali, oltre il dato eminentemente materiale.
Poco importa se una prospettiva di partenza realista, come in I vitelloni e la Dolce vita, si proietta su uno sfondo onirico; o se, al contrario, è l’immaginario a cercare asilo nel reale, come in 8 e mezzo o ne La città delle donne; o se, ancora, si parte già dal tentativo di fusione dei due poli, come in La strada e Le notti di Cabiria.
Alla fine, la soluzione del paradosso avviene quando il tutto viene filtrato dalla luce flebile del ricordo. Un processo che Fellini affronta nei primissimi anni ’70, con la trilogia della memoria ( I clowns, Roma e Amarcord). Proprio con Amarcord, mi ricordo in dialetto romagnolo, l’ossessione felliniana trova la sua più compiuta consolazione. La biografia romanzata diviene il terreno ideale in cui risolvere, una volta per tutte, l’ossimoro del cinema.