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Il regalo di Bankitalia

Creato il 24 gennaio 2014 da Keynesblog @keynesblog

banca-ditaliadi Massimo D’Antoni da re:vision

La rivalutazione delle quote di Bankitalia non è un’operazione priva di costi per la finanza pubblica. Essa comporta la distribuzione di elevati dividendi e quindi la rinuncia ad entrate rilevanti nei prossimi anni. E anche riguardo all’obiettivo di rafforzare per questa via il sistema bancario si possono avanzare perplessità

Il decreto sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia da 156 mila euro a 7,5 miliardi ha suscitato critiche tra gli addetti ai lavori, ma il carattere tecnico del provvedimento ha impedito che la questione avesse presso l’opinione pubblica l’attenzione che merita. Una certa preoccupazione ha destato la prospettiva di un assetto proprietario che coinvolga soci stranieri, cioè la questione dell’italianità di Bankitalia. È tuttavia importante capire i riflessi del provvedimento sulla finanza pubblica e i suoi possibili effetti redistributivi.
Le banche interessate sembrano aver accettato di buon grado il pagamento di un’imposta sostitutiva del 12% sull’incremento del valore della loro partecipazione. Il motivo è ovvio: l’aumento del valore del patrimonio non è un puro fatto nominale o contabile. L’operazione si configura come un vero e proprio trasferimento di ricchezza dallo Stato alle banche socie, un trasferimento che vale 7,5 miliardi (meno il 12% di imposta). Per capire il punto occorre considerare che siamo di fronte a qualcosa di diverso da una normale rivalutazione di una partecipazione iscritta nel bilancio di una società. Nel caso di una partecipazione in una società privata, il valore di mercato delle quote, che riflette la redditività attesa della società partecipata, può differire dal valore iscritto nel bilancio della partecipante, ed è buona norma allineare periodicamente il secondo al primo; il riallineamento serve a rendere il bilancio coerente con l’effettivo valore patrimoniale.
Diversamente da una generica partecipazione, nel caso di Bankitalia l’esercizio dei diritti di proprietà per i soci è molto limitato: l’attività della banca è regolata dalla legge, ed è di fatto sottratta alla disponibilità dei soci. In effetti, al di là del prestigio derivante dal detenere una quota della banca centrale, le quote di Bankitalia danno a chi le possiede il mero diritto a percepire i dividendi nella misura fissata dallo statuto. Finora, i dividendi erano stati estremamente contenuti (lo statuto fissava un massimale pari al 10% del capitale sociale, cioè circa 15 mila euro), anche se negli ultimi anni erano stati distribuiti dividendi straordinari fino a 70 milioni di euro.
È chiaro dunque che un aumento del valore delle quote a 7,5 miliardi si giustifica solo in quanto aumentano in modo corrispondente i dividendi che i soci si aspettano di percepire in futuro; non a caso il decreto del governo stabilisce che i dividendi possano arrivare al 6% del nuovo valore; aumenta cioè il massimale a 450 milioni. Qui c’è un passaggio delicato: la norma statutaria stabilisce che i dividendi possano arrivare al 6%, non dice che debbano farlo necessariamente. Tuttavia, proprio per il motivo che dicevamo, proprio per il necessario legame tra dividendi attesi e valore di mercato, un aumento dei dividendi di questo ordine di grandezza (se non sarà il 6% sarà il 5%) è necessario perché il mercato “convalidi” il valore fissato di 7,5 miliardi.
Proviamo ad immaginare cosa accadrebbe in caso contrario, se cioè alla rivalutazione nominale non corrispondesse un aumento dei dividendi attesi. Le banche socie che volessero vendere parte delle loro quote (alcune banche dovranno farlo quasi subito per scendere sotto il 5%), e che hanno iscritto a bilancio una plusvalenza all’atto della rivalutazione, otterrebbero un prezzo considerevolmente più basso del valore teorico, soffrendo di una minusvalenza patrimoniale. È molto improbabile che si consenta un esito del genere. Ma c’è di più: Bankitalia si è impegnata al riacquisto delle proprie azioni nel caso in cui le banche non dovessero trovare acquirenti sul mercato. A quale prezzo avverrà il riacquisto? Non è immaginabile che dopo aver stimato il valore in 7,5 miliardi, Bankitalia acquisti le azioni ad un prezzo inferiore. Dunque, le banche che si troveranno a ridurre la loro partecipazione riceveranno da Bankitalia un pagamento corrispondente al valore teorico fissato, anche se tale valore è superiore alla valutazione di mercato.
Se è vero quanto abbiamo detto, se la rivalutazione delle quote contiene una implicita promessa di distribuire dividendi in misura pari (o comunque di poco inferiore) al 6% del nuovo valore del capitale, siamo di fronte a qualcosa di più di un mero adeguamento contabile. L’operazione ha effetti concreti sui flussi reddituali tra Bankitalia e i suoi soci. Le banche ricevono un bel regalo di Natale, e a pagare sarà il bilancio dello Stato, cioè i contribuenti, visto che, sempre da statuto, gli utili di Bankitalia non distribuiti ai soci vengono versati allo Stato. Se il regalo da 7,5 miliardi non incide immediatamente sul bilancio pubblico, inciderà l’impegno a corrispondere ai soci da qui in avanti dividendi pari al 6% di tale valore, ovvero 450 milioni. In cambio, le banche pagano un’imposta sostitutiva del 12% sulla plusvalenza. Insomma: nelle casse dello stato entrano immediatamente 900 milioni, a fronte di una minore entrata 450 miloni annui a partire dal prossimo anno. Siamo sicuri che ne valga la pena?
Chi ci ha seguito fin qui potrebbe a questo punto avanzare un’altra obiezione, dettata dal realismo. È vero che stiamo facendo un regalo alle banche, ma tutto ciò è necessario per rafforzare il nostro sistema del credito, indebolito dalla crisi. In altri paesi i salvataggi del sistema bancario sono costati in fondo molto di più. A questo proposito, va tuttavia tenuto presente che il vantaggio dell’operazione è per le sole banche che attualmente detengono la proprietà delle azioni, in proporzione alle rispettive quote. Queste sono distribuite in modo molto diseguale, visto che Intesa San Paolo detiene da solo il 42,4% e Unicredit il 22,1%. È vero che il decreto impone un limite del 5% e quindi una maggiore dispersione dell’azionariato, ma questo non inciderà sulla distribuzione dei benefici patrimoniali di cui si è detto. L’aspettativa dei maggiori dividendi futuri viene capitalizzata nel valore delle quote immediatamente, nel momento in cui il decreto diventa efficace, e quindi la fotografia dell’attuale assetto societario ci dà anche la distribuzione dei relativi benefici. Insomma, se l’obiettivo era quello di usare risorse pubbliche per rafforzare il nostro sistema creditizio, sarebbe stata preferibile una soluzione diversa, che garantisse benefici diffusi e non così sproporzionatamente concentrati a vantaggio di pochi soggetti.

(20 dicembre 2013)

Il seguente articolo de “La Voce” riferisce delle variazioni intervenute dalla prima stesura del decreto.

Quote Banca d’Italia: la Bce bacchetta il Governo

di Angelo Baglioni da La Voce

Il Senato approva, con opportune modifiche, il decreto sulle quote Banca d’Italia. La Bce bacchetta il Governo italiano per non averla consultata, ma soprattutto lancia un avvertimento sul potenziale costo dell’operazione per la Banca d’Italia stessa.

L’aula del Senato ha approvato (9 gennaio) in prima lettura la conversione in legge del discusso decreto che rivaluta le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia (1). In questa fase, sono state introdotte modifiche opportune che, come già avevamo notato, seppelliscono l’idea iniziale di creare un libero mercato internazionale delle “azioni” della banca centrale.
Nel frattempo, è stato reso noto (27 dicembre) il parere della Banca centrale europea sulla bozza di decreto. Il parere richiede “ulteriori dettagli” sul metodo di valutazione, che ha condotto alla cifra di 7,5 miliardi per il capitale complessivo della Banca d’Italia, e richiama il rispetto delle regole prudenziali e contabili europee nelle operazioni di ricapitalizzazione che le banche italiane, azioniste della Banca d’Italia, potranno fare sfruttando la rivalutazione delle loro quote. Ma al di là di questi aspetti tecnici, quello che colpisce sono due richiami espliciti, seppure formulati nel linguaggio soft dei banchieri centrali.

TROPPA FRETTA

A pagina 2 del parere leggiamo: “La Bce ha ricevuto la richiesta di consultazione il 22 novembre 2013, mentre il decreto legge è stato approvato il 27 novembre 2013”. Il Governo italiano ha dato solo tre giorni lavorativi alla Bce per emanare il parere che, secondo quanto previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, doveva precedere l’approvazione del decreto. Ciò equivale in sostanza a “un caso di non consultazione”, ragion per cui “la Bce desidera richiamare l’attenzione del Ministero circa il rispetto della procedura di consultazione”. In altre parole, Mario Draghi (firmatario del parere in qualità di Presidente della Bce), ha dovuto tirare le orecchie al suo ex-collega Saccomanni, che prima di diventare Ministro sedeva al vertice della Banca d’Italia, parte dell’Eurosistema.

POSSIBILI TRASFERIMENTI DALLA BANCA D’ITALIA ALLE BANCHE AZIONISTE

Ma veniamo a un aspetto di sostanza, anziché di procedura. Il decreto prevede un limite massimo alle singole quote, pari al 3 per cento del capitale della Banca (2). Esso autorizza la Banca d’Italia a effettuare operazioni di acquisto (temporaneo) delle proprie quote, presso quegli azionisti che detengano partecipazioni superiori a quel limite. A pagina 5 del parere si legge: “La Bce prende atto che la possibilità, per la Banca d’Italia, di effettuare tali operazioni, può comportare un trasferimento di risorse finanziarie agli azionisti”. In sostanza, la Bce richiama l’attenzione sul potenziale costo, a carico della banca centrale, di quelle operazioni a favore dei suoi azionisti. Poiché la Bce non quantifica questo costo, proviamo a farlo noi. Naturalmente, il costo effettivo dipenderà dalle decisioni del Consiglio superiore della Banca d’Italia. Noi possiamo solo indicare una forchetta, che va da un minimo pari a zero, qualora il Consiglio decidesse di non fare alcuna operazione di riacquisto, a un massimo indicato nella tabella sottostante. Gli importi massimi, indicati nella terza colonna della tabella, sono stati calcolati moltiplicando la quote di capitale che devono essere cedute da alcuni azionisti della Banca d’Italia (in pratica le partecipazioni in eccesso rispetto alla soglia del 3 per cento, indicate nella seconda colonna) per il valore nominale del capitale della Banca, che rappresenta il prezzo massimo d’acquisto da parte della Banca d’Italia. Come si vede, si tratta di importi rilevanti, che sommano a un totale di quasi 4,2 miliardi di euro (corrispondente a quasi il 56 per cento del capitale della Banca).

Trasferimento massimo a carico della Banca d’Italia, a favore di:

Il regalo di Bankitalia

È bene sottolineare che quello esposto qui è solo un esercizio. Siamo sicuri che la Banca d’Italia eserciterà con la massima prudenza e parsimonia l’autorizzazione ricevuta con il decreto legge, facendo in modo che gli azionisti che hanno partecipazioni eccedenti il 3 per cento trovino altri acquirenti delle eccedenze. Forse però si poteva evitare di introdurre una discrezionalità, il cui esercizio potrebbe esporre la banca centrale al rischio di acquistare le proprie quote a un prezzo superiore a quello al quale le dovrà rivendere in un momento successivo. Si può obiettare che questa autorizzazione era necessaria, per agevolare il processo di smaltimento delle quote in eccesso rispetto al limite del 3 per cento. Tuttavia, lo stesso decreto prevede che le quote eccedenti siano “sterilizzate”: private del diritto di voto e di ricevere dividendi (dopo un periodo transitorio). Quindi, i “grandi azionisti” hanno tutto l’incentivo a trovare acquirenti per le partecipazioni in eccesso; al giusto prezzo, s’intende. Perché allora introdurre una agevolazione? Forse anche alla Bce se lo sono chiesto…

(1) Su questo sito siamo più volte intervenuti sull’argomento: si vedano gli articoli raccolti nel dossier. Si vedano anche gli interventi di Marco Onado e di Luigi Zingales sul Sole-24-Ore del 20/12/2013.
(2) La soglia era pari al 5 per cento nel decreto originale; è stata abbassata al 3 per cento in fase di conversione.


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